Il governo italiano non ha la minima intenzione di congelare i beni finanziari detenuti in Italia dal colonnello Gheddafi. Una nuova riunione tenuta ieri dal Comitato presieduto dal direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, è servita solo a ribadire che tutti i guardiani del mercato finanziario (dalla Consob alla Banca d’Italia fino a tutti gli intermediari come la Borsa e le stesse banche) sono strenuamente impegnate nel cosiddetto monitoraggio.
Tutti con il binocolo, stanno di vedetta per notare tempestivamente eventuali vendite di titoli Unicredit o Finmeccanica da parte del (rispettivamente) primo e terzo azionista, Gheddafi appunto.
Il comunicato pubblicato ieri sul sito del ministero dell’Economia è talmente chiaro (anche se solo in un certo senso) che val la pena riportarlo testualmente: “Il Comitato di Sicurezza Finanziaria (CSF) si è riunito oggi presso il ministero dell’Economia con l’obiettivo di verificare la corretta applicazione in Italia delle sanzioni decise dall’Unione europea della Decisione 2011 del 28 febbraio e rese operative a tutti gli effetti anche nel nostro paese con la pubblicazione del Regolamento 204 del 2 marzo scorso nel quale vengono indicati i nominativi delle persone per le quali sono congelati tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti, posseduti, detenuti o controllati (art. 5)”.
Secondo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, quei quattro aggettivi usati nel regolamento europeo (appartenenti, posseduti, detenuti o controllati) non indicano la disponibilità a qualsiasi titolo dei beni nelle mani delle 26 persone indicate (Gheddafi, la sua famiglia e i suoi più stretti collaboratori) ma semplicemente le proprietà personali. Il pacchetto di maggioranza relativa (7,5 per cento) dell’Unicredit, per esempio, è diviso tra i portafogli della Banca centrale libica e della Libyan Investment Authority (Lia), due istituzioni finanziarie che per le autorità italiane sono perfettamente autonome una dall’altra, quindi anche da Gheddafi, per cui non scatta il tetto del 5 per cento di azioni Unicredit che vale per ogni altro comune mortale.
Berlusconi ha dunque gioco facile a trincerarsi nella posizione dichiarata nella tarda serata di venerdì scorso a Helsinki: “Occorre distinguere bene sulle partecipazioni della Libia in quanto popolo libico e le partecipazioni che invece sono attinenti a una famiglia: quindi staremo molto attenti a una distinzione”.
La posizione del governo italiano è di grande imbarazzo. C’è una ragione non dichiarata per la quale il congelamento delle partecipazioni azionarie in mano al regime di Gheddafi sembra addirittura impensabile. La distinzione tra beni personali e beni “del popolo libico” dev’essere apparsa risibile a tutti i capi di governo occidentali (dall’americano Barack Obama alla tedesca Angela Merkel) che già alcuni giorni fa hanno provveduto a congelare tutto il congelabile, comprese le azioni “del popolo libico” nella società Pearson che pubblica il Financial Times.
A rendere abbastanza incomprensibile la posizione del governo italiano è la proposta, avanzata con molta enfasi a Helsinki dallo stesso Berlusconi, di un “piano Marshall” per aiutare economicamente i Paesi del Nordafrica (Libia compresa) che stanno compiendo il difficile percorso verso la democrazia. Il premier italiano vorrebbe che l’Europa mettesse in campo 10 miliardi di euro. Se per Egitto e Tunisia la cosa ha un senso, nel caso della Libia si prefigura uno scenario quantomeno contraddittorio. Le istituzioni finanziarie libiche (Lia, Banca centrale, Lafico) detengono azioni di società italiane per circa 4 miliardi di euro. La Lia ha in portafoglio partecipazioni per almeno 60 miliardi di euro. Se sono “beni del popolo libico”, come dice Berlusconi, il popolo libico non ha problemi economici: dispone di un tesoretto stimabile in una o due volte il suo prodotto interno lordo.
Conclusione: il 7,5 per cento in mano libica è decisivo per gli equilibri azionari di Unicredit, e se il “popolo libico” volesse vendere il pacchetto (2,5 miliardi di euro) per risolvere qualche problema a casa propria sarebbe un guaio per il potere finanziario italiano. Il rischio è che i contribuenti debbano pagare ulteriori aiuti alla Libia (senza bisogno) per non compromettere gli equilibri di potere in Unicredit.
da Il Fatto Quotidiano del 6 marzo 2011