La copertura mediatica internazionale degli eventi che hanno avuto luogo recentemente nell’area mediorientale ha catturato anche la Giordania. Giornali come New York Times, Washington Post, Foreign Policy, The Indipendent, Haaretz, The Guardian, Der Spiegel, solo per nominarne alcuni, e canali televisivi come Sky News e la Bbc si sono espressi sul destino del nostro paese.
In tale contesto, risulta particolarmente interessante la dichiarazione del portavoce del Dipartimento di Stato americano, Philip Crowley, fatta durante una recente conferenza stampa per discutere il caso egiziano. Quando le domande si sono spostate sulla Giordania, Crowley ha stupito tutti i presenti con la sua risposta: “Sono qui per rispondere a domande sull’Egitto, non sulla Giordania”.
La Giordania è diventata un oggetto di conversazione da analizzare e sottoporre a dissezione, ma stranamente stiamo assistendo a una radicale trasformazione nel modo in cui i media offrono un resoconto su ciò che fino a pochi anni fa si era soliti chiamare “la monarchia moderna e stabile nelle terre dell’autocrazia”. Questa svolta riecheggia in tutti i reportage internazionali sui diritti civili, sulla democrazia e la libertà di parola, che hanno improvvisamente cominciato a muovere forti critiche all’indirizzo del Regno. E’ chiaro che non abboccano più all’idea del brillante regime modello.
Alcuni articoli riportano analisi piuttosto teoriche, ma altri riflettono l’esperienza personale di giornalisti che sono entrati direttamente in contatto con la popolazione. Nel suo ultimo articolo sul NY Times, Thomas Friedman ha scritto: “Egitto, Giordania, Yemen e Tunisia oggi traboccano del tipo di persone più frustrate del mondo – gli ‘istruiti inoccupabili’. Questi posseggono una laurea sulla carta, ma in realtà non hanno le competenze che li renderebbero competitivi a livello globale”.
Sebbene molte voci giordane abbiano richiamato l’attenzione sul tema, è importante citare le dichiarazioni di Friedman dopo la sua visita in Giordania. La nostra esperienza suggerisce semplicemente che le orecchie locali non sentono fin quando la fonte non proviene dall’estero. Si spera che la voce di Friedman colpisca le orecchie di chi prende le decisioni e che dia loro una svegliata sulle preoccupazioni della nostra gente, che il giornalista ha commentato nel suo intervento: “Non torno in Giordania da un po’ di tempo, ma oggi risuonano al mio orecchio le lamentele sulla corruzione, l’insoddisfazione per il Re e la Regina, e il disgusto per l’enorme divario fra ricchi e poveri”.
Se il punto in questione è la mancanza di ascolto verso le voci del nostro popolo, c’è un buon motivo. Un esempio si è avuto quando i funzionari giordani non hanno riconosciuto il Comitato Nazionale delle Forze Armate Personali e, come al solito, hanno scelto semplicemente di ignorare la loro esistenza. Per troppo tempo i funzionari giordani non hanno affrontato i problemi, preferendo nasconderli. L’ultimo rifugio consiste nel non ammettere l’esistenza di un problema, ignorarlo, anche quando chiunque altro se ne accorge. Per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi e farci vedere ciò che non volevamo, sono dovuti intervenire dall’estero.
Robert Fisk, uno dei più famosi giornalisti della stampa internazionale, è venuto fin qua per intervistare i membri del Comitato, e le loro richieste sono finite in prima pagina sul britannico The Independent. Su qualsiasi quotidiano locale: nemmeno una parola. Oggi il Comitato sta ultimando il suo rapporto sulla corruzione e su tutti gli scandali relativi alla vendita del patrimonio giordano che impongono al Governo di rispondere seriamente. Per i giordani la storia si ripete nelle reazioni ufficiali ai problemi attuali. Cosa è successo quando Al Rifai ha voluto promulgare una legge autocratica che gli ha conferito il potere di reprimere tutte le voci di dissenso nei confronti suoi e del suo governo?
Di certo, non è stato preso in considerazione nessuno degli articoli che noi tutti abbiamo pubblicato in Giordania esprimendo preoccupazione circa la soppressione delle libertà fondamentali e per l’inderbolirsi dell’immagine del nostro paese, fino al momento in cui Janine Zacharia del Washington Post ha scritto sulle restrizioni e su come la Giordania stesse divenendo oppressiva.
Il problema è che i nostri media sono un riflesso della nostra politica. E anche che noi pensiamo ancora di vivere nei “secoli bui”. Quindi, quando qualcuno viene da fuori e produce notizie per il mondo con i suoi articoli, è portato a considerare solo due opzioni: chiudere gli occhi e continuare ad andare avanti in modo mansueto nonostante le difficoltà, oppure semplicemente decidere di cancellare o riassumere senza menzionare gli argomenti cruciali, buttar via la sostanza, e andare avanti lo stesso.
Twitter e Facebook hanno cambiato il mondo. I giovani entrano in contatto e interagiscono ovunque, condividendo i problemi nel tentativo di trovarne le soluzioni. Per i difensori dei “secoli bui” è giunta l’ora di usare i social network per ascoltare la voce della gente e fare qualcosa. Come minimo, potrebbero trovarli come un modo più utile per capire la gente, invece di usarli semplicemente come strumento di marketing per la loro propaganda.
“Stiamo vivendo in una grande menzogna” diceva un beduino, citato dal New York Times, per descrivere la situazione attuale in Giordania. Se riflettiamo su cosa significa, è veriamente serio. La riforma dovrebbe nascere dall’interno. Ci dovrebbe spingere lontano da vuote promesse e condurre verso le iniziative che portano a fare concreti passi avanti. L’agenda della nostra riforma dovrebbe focalizzarsi sulla circolazione del potere, la distribuzione della ricchezza e la fine della politica stile “one man show”.
La gente dovrebbe essere coinvolta nell’attività politica, e il contrasto della corruzione dovrebbe apparire ovvio ed essere condotto onestamente. I giordani hanno perso la speranza di vedere puniti i corrotti. Vedono soltanto lo scenario organizzato e assistono ai giochi messi in atto dai loro governanti per vendetta o interessi personali. Se non cambierà, dovremo rassegnarci a considerare lo stato normale delle cose così come è stato descritto dal Washington Post: “E’ un club di businessmen al servizio dei loro interessi finanziari”.