È una fredda mattina di marzo, la strada si snoda fra campi infestati di rottami e brutte palazzine a due piani che spuntano nella luce nebbiosa delle sette. Lungo la strada incontro un bar, davanti al bar ci sono delle prostitute nigeriane che salgono alla svelta su un Ducato bianco. Le vedo ogni mattina passando di qua, tagliando il cuore della periferia sud-est di Roma mentre vado a lavoro. Hanno finito il turno della notte, qualcuno le raccoglie dalla strada per riportarle in gabbia, per nascondere l’aspetto inconfessato della nostra civiltà.
Il distributore è deserto, ha l’apparenza gelida di una piattaforma petrolifera nel Mare del Nord. Nei pressi della pompa di benzina si aggira una grossa donna sui settanta. La conosco, perché è qui che mi capita spesso di fare rifornimento. Ha la faccia perennemente abbronzata, un naso grosso e rubizzo, due occhi di un azzurro intenso. Si sposta lentamente trascinando i piedi avvolti in un paio di ciabattone felpate. Il giubbotto che indossa è quello con lo stemma della compagnia petrolifera che la rifornisce.
Accosto alla pompa e abbasso il vetro. Le chiedo di fare il pieno. “Benzina, eh?”, si premura lei. Lo fa sempre. In passato dev’esserle capitato di rifilare un pieno di super a una macchina col motore diesel. “Benzina”, confermo. Pianto lo sguardo sul cellulare e intanto sfilo dal portafoglio una banconota da cinquanta.
Passa un minuto, e mi volto verso il display del distributore. Lei è lì dietro che tenta di spremere le ultime gocce del prezioso distillato per fare conto pari. “So’ cinquanta precise”, mi fa mentre tira fuori la pistola (in ogni senso) e richiude il bocchettone del serbatoio.“Cinquanta?” ripeto io, temendo di non aver capito bene. L’anno scorso, con la stessa macchina, facevo pieni da quaranta. Fino a qualche giorno fa quarantatre, quarantaquattro al massimo. Si accorge del mio stupore. “E che è corpa mia?”, blatera. “Pijatevela coi libbici”. La conversazione è al collasso. Sulla strada qualcuno rallenta, dà un’occhiata al prezzo dei carburanti dichiarato sui listini, prosegue oltre, nella speranza di strappare un centesimo al litro in meno.
È così che gira l’economia mondiale, penso. Gli scontri di Ras Lanuf e Ben Jawad, dove ai raid aerei del regime di Gheddafi risponde la contraerea degli insorti, arrivano a incidere questo ghigno perfido sulla bocca storta della signora. Alle sette del mattino ancora non so che Jean Claude Trichet al termine della riunione del Global Economy Meeting dichiarerà che le banche centrali sono vigili sul prezzo del petrolio. Alle sette del mattino non so neppure che ieri, fra le 21 vittime di Misurata, c’è stato pure un bambino di due anni e mezzo. Quello che so per certo è che nei telegiornali e nei talk show di tutto l’Occidente civilizzato interesseranno più le dichiarazioni di Trichet che la morte di quel bambino.
È la ragione profonda per cui, prima di andarmene, guardo con occhi feroci la benzinaia che mi ha appena estorto cinquanta euro. È la politica universale che impone l’odio al dettaglio. Che altera la scala dei valori in nome del conflitto fra singoli. La guerra nel nord Africa non è solo una questione fra Nato, Lega araba e Unione africana. La guerra si instilla dall’alto, fra noi e noi. E vittime o carnefici, presto o tardi, lo diventiamo tutti.
Così rimetto in moto e vado, col portafoglio più leggero e la testa ancora carica di sonno. Da questo momento in poi doserò al minimo la spinta sull’acceleratore, tenterò di placare la raffica di insulti che mi affiorano alla mente e che hanno come destinatari i benzinai, i petrolieri, i conduttori dei talk show, i dittatori libici e la Bce. Metti un tigre nel motore, diceva una vecchia pubblicità di una famosa compagnia petrolifera. Oggi ho l’impressione che nel motore ci mettano visoni e zibellini. Le tigri, in compenso, rimangono a ruggire nella nostra testa.
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