La guerra è il contrario della pace e il pacifismo è una variante surrettizia delle seconda. I movimenti pacifisti hanno sempre osteggiato l’intervento contro le dittature invocando la pace, la quale ha un valore relativo quando non sia accompagnata dalla libertà e dalla giustizia. Il pacifismo nel 1938 si oppose all’intervento contro l’ascesa di Hitler. Negli anni ’50, il pacifismo sosteneva il regime sovietico e limitrofi. In generale il pacifismo, quasi sempre anti/americano e anti/israeliano, finisce per sostenere tutti i regimi anti/occidentali.
Disponendo di un’etica che mi impone di premettere i miei pregiudizi da occidentale, dichiaro subito di essere filoamericano & filoisraeliano. Le ragioni per cui vedrei con favore un intervento armato nella crisi libica e non soltanto in essa, sono svariate, ma lo spazio di un post mi consente di accennare solo ad alcune di esse.
Premettendo che la Russia e la Lega sono contrarie, per non dire dell’ambiguità del resto del governo, ritengo che i vantaggi di un intervento armato potrebbero essere rilevanti: disarcionare Gheddafi sottraendogli dalle mani, le stesse che il Caimano ha baciato, il massacro di civili più o meno inermi; costringere Governo & Parlamento italioti a invalidare quel “trattato insolito” (New York Times di ieri), che vieta ogni azione contro la Libia e ogni ingerenza nei suoi affari; essere presenti su un territorio dove potrebbero radicarsi organizzazioni terroristiche; contenere l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio & via discorrendo.
Il Fatto Quotidiano di oggi ha messo a confronto le opinioni di Furio Colombo e Massimo Fini, entrambi sfavorevoli a un interevento armato in Libia, e le opinioni favorevoli di Giampiero Gramaglia e del generale Fabio Mini.
Colombo, rifacendosi alle esperienze dell’Iraq e dell’Afghanistan, giudicate meramente negative, esprime il suo “no a un altro conflitto che non si può vincere”. Mentre Gramaglia dice sì, a condizione che l’intervento armato si svolga “nella legalità internazionale”. Ancora più favorevole il generale Mini, secondo il quale “agire con le armi è una necessità”. Opinione controbilanciata da quella assolutamente contraria di Fini, che appellandosi al principio dell’autodeterminazione dei popoli (Carta di Helsinki del ‘75), in base alla quale la “questione tra libici deve essere risolta dai libici”. Fini è contrario anche ai così/detti interventi di peace keeping, che a suo parere si sono risolti nel loro contrario (Afghanistan, Kosovo e Serbia), in quanto le ‘operazioni di pace’ sono accettabili solo quando le forze internazionali si interpongono, facendo da cuscinetto, come in Libano, fra due comunità che non appartengono allo stesso stato.
Ancora Massimo Fini sul Fatto del 26 febbraio, nel pezzo L’inizio della fine, afferma che “le rivolte popolari in Tunisia, Egitto, Libia, Algeria, Marocco, Bahrein segnano l’inizio della fine dell’Impero americano, e occidentale, in quelle regioni. Da quando hanno vinto la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, nonostante tutte le loro belle parole di democrazia, hanno sostenuto i dittatori più infami, corrotti e sanguinari, purché gli facessero comodo, quando non hanno fomentato direttamente dei golpe militari. E questa realpolitik imperialista gli si è sempre ritorta contro o li ha messi in situazioni insostenibili”.
Massimo Fini enumera anche tutti gli altri sfracelli amerikani: “il sostegno al dittatore cubano Batista ha generato il castrismo (…) Il sostegno al patinato Scià di Persia ha partorito il khomeinismo (…) Il sostegno ai “signori della guerra afghani”, Massud, Dostum, Ismail Khan (…) li ha messi in una situazione insostenibile, avendo i guerriglieri ripreso il controllo dell’80% del Paese, per cui oggi vanno in giro col piattino pietendo dal Mullah Omar una mediazione (…) Gli Usa hanno sostenuto il dittatore tunisino Ben Alì, (…) il dittatore egiziano Mubarak (…) nel 1991, hanno sostenuto i generali tagliagole algerini (…) Ora le rivolte nel Maghreb, in Egitto, nel Bahrein (…) e in Libia (…) Ma d’ora in poi sarà loro molto più difficile controllare le varie situazioni. Lo sbocco di queste rivolte, si dice, è imprevedibile. Non proprio. È molto probabile che questi popoli una volta liberatisi dei dittatori, finiscano, prima o poi, per rendersi indipendenti anche dal burattinaio che, per decenni, li ha manovrati a suo uso e consumo.
La mia impressione è che questa meritoria, analiticamente parlando, disanima di Massimo Fini, ipotizzi una sorta di mondo sotto vuoto spinto o vuoto di potere dove, se non ci fossero stati e non ci fossero gli amerikani, tutti i popoli sarebbero andati e andrebbero d’amore & d’accordo, come se in nuce già non ci fossero altri pretendenti alla costituzione di un altro Impero il quale, una volta sfuggito dalle mani amerikane ( o meglio anglosassoni), sarà, come storicamente è sempre successo, raccolto da altri testimoni, siano essi cinesi, indiani, brasiliani o altri – con metodologie di amministrazione del potere, della giustizia e della distribuzione delle risorse, forse meno augurabili di quelle attuali.