L’eco delle voci provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo è giunto in Italia suscitando diverse reazioni: se da una parte abbiamo avuto manifestazioni di solidarietà dei maghrebini e degli egiziani presenti sul nostro territorio, dall’altra abbiamo avuto il dispiegamento totale delle retoriche allarmistico-securitarie, marchio di fabbrica del governo (seguito a ruota dall’inconsistente opposizione parlamentare, che come al solito rincorre la destra invece che proporre altro). Il ministro dell’Interno (meglio, della Paura) si scopre europeista e chiede a gran voce l’aiuto dell’Unione per “fermare l’invasione” e rafforzare i dispositivi di controllo militare della frontiera meridionale del continente tramite ulteriori finanziamenti a Frontex (l’agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Ue nata nel 2005).
Uno dei motivi principali che legavano i regimi nordafricani con i democratici governi europei era proprio il freno che questi riuscivano a porre all’immigrazione (ogni mezzo è lecito, si veda il documentario Come un uomo sulla Terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer, Riccardo Biadene) in quello che è un vero e proprio processo di “esternalizzazione” della frontiera europea. E del lavoro “sporco”. Quelli che oggi vengono chiamati dittatori – ma che fino all’anno scorso erano capi di stato amici dell’Occidente – reggevano il peso dei delicati equilibri strategici dell’intera area mediterranea (un esempio è il Trattato d’amicizia Libia-Italia firmato il 30 agosto 2008).
In questi giorni assistiamo all’arrivo di centinaia di giovani e giovanissimi (in gran parte tunisini) sulle coste siciliane, mentre il governo sta tentando di aprire un contatto con Bengasi e con la frontiera tra la Libia e la Tunisia per tamponare le partenze. Molti degli arrivati che non riescono a proseguire il loro viaggio verso la Francia o la Germania, in palese violazione del diritto d’asilo, vengono rinchiusi e stipati nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e si trovano nella condizione paradossale di essere imprigionati dopo aver creduto di arrivare in un paese “libero”. Da qui le prime rivolte che stanno incendiando i Cie da Gradisca a Modena passando per Torino. Intanto la Nato prende in considerazione un attacco: la “guerra democratica” stuzzica sempre gli irreprensibili membri dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (giusto per spolverare la memoria pensiamo al Kosovo o all’Afghanistan…).
Oggi ancora una volta la questione della mobilità (Sandro Mezzadra, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, parla apertamente di “diritto di fuga”) è strettamente intrecciata con la pratica della democrazia e della libertà. Se da una parte questo desiderio di libertà trova il suo dispiegarsi nelle lotte contro i regimi corrotti, dall’altra si esprime mettendo in gioco i propri corpi e le proprie vite salendo su una barca dall’equilibrio precario. Allora, forse, dovremmo provare a reinventare il lessico democratico in un altro ordine del discorso capace di parlare di autodeterminazione dei popoli, diritto di mobilità, cittadinanza globale. Per non rassegnarci alla democrazia delle armi, dei muri e dei razzismi. E per seguire l’anima e il corpo di chi in Libia, e in tutto il Maghreb e non solo, si è messo in gioco.
Vignetta di Arnald – per ingrandire clicca qui