“Perché torciamo i giovani? Perché obblighiamo tutti a studiare?” si chiede la professoressa Paola Mastrocola nel suo ultimo libro, Togliamo il disturbo – saggio sulla libertà di non studiare. Il rapporto del consorzio di atenei Almalaurea sulla situazione dei laureati – il primo che racconta gli effetti della crisi economica – non offre risposte molto incoraggianti.

Dalle analisi di un campione di 400 mila laureati si arriva a una conclusione semplice e un po’ deprimente: in Italia studiare conviene sempre meno. E non per colpa della qualità della formazione: secondo le indagini a livello comunitario di Eurobarometro, ricorda il rapporto Almalaurea, l’89 per cento dei dirigenti aziendali responsabili delle risorse umane pensa che i laureati italiani possiedano le competenze richieste. Eppure fanno sempre più fatica a trovare un posto e, quando lo trovano, hanno stipendi sempre più bassi.

Premessa: i dati mensili dell’Istat che parlano di una disoccupazione giovanile al 29,4 per cento (a gennaio) con i laureati c’entrano poco. Perché per l’Istat i giovani sono quelli tra i 15 e i 24 anni, età alla quale in pochi in Italia hanno già completato l’intero percorso di studi universitari (conseguendo cioè la laurea specialistica). I dati Almalaurea sono quindi utili perché raccontano le difficoltà degli altri giovani, quelli che hanno continuato a studiare o che non si sono laureati perfettamente in corso.

Il tracollo per i laureati c’è stato nel 2008, quando la crisi ha iniziato a farsi sentire nell’economia reale, e la situazione è peggiorata ancora nel 2009, quando il Pil è crollato di quasi il 6 per cento. Se consideriamo il tasso di disoccupazione, cioè la percentuale di laureati che cerca lavoro e non lo trova, i risultati sono questi: per quelli con la laurea triennale nel 2009 il tasso passa dal 15 al 16 per cento, per quelli con la specialistica va peggio, dal 16 al 18 per cento (ma l’anno precendente l’aumento era stato di cinque punti). Non va meglio se si considera il tasso di occupazione, cioè la percentuale di laureati che sono entrati nel mercato del lavoro: tra il 2007 e il 2009 scende di sei punti tra i laureati di primo livello (triennali), di sette tra quelli con la specialistica e di 8,5 tra quelli a ciclo unico (per le facoltà dove non c’è la laurea intermedia, tipo Ingegneria). Le spiegazioni sono due: i laureati di secondo livello possono scegliere tra lavoro e dottorato, quelli triennali no, e in un momento di crisi ci sono più incentivi a continuare a studiare sperando che il peggio sia passato quando si entra nel mercato del lavoro. Seconda spiegazione: i laureati triennali costano meno. La prova sembra essere nei dati sugli stipendi: quelli dei laureati con la specialistica sono in caduta libera negli anni della crisi. Se i laureati di primo livello, tra il 2007 e il 2009, hanno visto il guadagno mensile medio passare da 1.210 euro a 1.149 (-5 per cento), i laureati con la specialistica hanno perso il doppio, il 10,5 per cento (da 1.205 a 1.078).

Che gli stipendi dei laureati siano in calo di anno in anno, però, non è tutta colpa della crisi: a cinque anni dalla laurea uno studente che ha finito i suoi studi nel 2000 guadagnava 1.461 euro. Un suo omologo che si è laureato cinque anni più tardi, nel 2005, sempre prima dell’introduzione della lauree brevi, soltanto 1.321 euro. Una riduzione di quasi il 10 per cento che, come sempre, pesa più sulle donne che sugli uomini: cinque anni dopo la laurea un uomo guadagna 1.562 euro in media, una donna 1.275.

Fatica sprecata, quindi? Meglio fermarsi a un diploma, magari di un istituto tecnico? Non proprio. Intanto perché secondo i dati Istat elaborati da Almalaurea, durante l’intera vita lavorativa, i laureati hanno un tasso di occupazione del 77 per cento contro il 66 dei diplomati. E soprattutto perché una laurea permette ancora di avere un buon stipendio, a condizione però che si sia disposti ad andare all’estero. Qui i numeri di Almalaurea sono impietosi: chi si è laureato nel 2009 se è rimasto in Italia un anno dopo riceve 1.054 euro al mese, se è fuggito 1.568. E più passa il tempo, più la differenza si fa pesante: un laureato del 2005 rimasto ha una busta paga media inchiodata a 1.295 euro, l’emigrante nel frattempo è arrivato a 2.025 euro. Oltre 700 euro di differenza.

“È uno spreco di risorse che li avvilisce e intacca gravemente l’efficienza del sistema produttivo”, ha detto di recente il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. E Almalaurea avverte: “Sarebbe un errore imperdonabile sottovalutare la questione giovanile o tardare ad affrontarla in modo deciso”. Finita la stagione delle proteste contro la riforma Gelmini dell’università, però, il tema sembra quasi scomparso dall’agenda della politica.

da Il Fatto Quotidiano dell’ 8 marzo 2011

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