In mezzo al traffico, la prima cosa che si nota sono le targhe delle auto per le vie del paese: una su tre è italiana. Milano, Bologna, Piacenza e i capoluoghi siciliani. “E’ perché tutte le nostre famiglie hanno almeno un parente che è andato in Italia a lavorare”, spiegano gli anziani nei bar. Gente che è tornata a casa dopo una vita di lavoro all’estero. “Ci siamo dati il cambio con i nostri figli e nipoti”, dicono malinconicamente. Anche Karima El Mahroug, in arte Ruby, è partita da qui, da Fkih Ben Salah, quando aveva solo nove anni. Suo padre Mohammed, emigrato molto tempo prima, aveva deciso di portarla con sè in Sicilia. Una storia come tante altre in una città che è diventata una delle capitali della diaspora marocchina. Novantamila anime sprofondate nel centro di una regione depressa fra Casablanca e Marrakech. Una comunità che vive grazie alle rimesse degli emigrati sulla sponda nord del Mediterraneo: Spagna, Francia e soprattutto Italia.
Il paese è un disordinato agglomerato di vie. In passato era un suk, un mercato dove pastori e agricoltori ogni mercoledì si riunivano per vendere i loro prodotti. Di quell’antica vocazione al commercio, il paese conserva decine di negozi che offrono ogni tipo di mercanzia. Per le strade è un continuo viavai di furgoncini scassati e carretti trainati da cavalli che viaggiano stracolmi di merce. Nei vicoli, molti ancora in terra battuta, i bambini che giocano a pallone indossano le maglie dei loro team preferiti: Barcellona, Inter e Milan.
In periferia, prima del “sael”, la campagna, c’è una seconda città: una cintura di case costruite a metà. Nessuno sa bene se e quando saranno terminate. I capifamiglia, emigrati all’estero, mandano i soldi per il cantiere. Si lavora quando si può, proprio come è successo per decenni nelle nostre regioni meridionali. Sullo sfondo, in lontananza, si intravedono le maestose cime dell’Atlante, la catena montuosa che attraversa il Marocco da Nord a Sud. Per quasi tutti i giovani, la regola è che dopo la scuola dell’obbligo bisogna emigrare. Fkih non può offrire un futuro ai propri figli, almeno non a tutti. Non ci sono industrie e la città è fuori dalle rotte dei viaggi organizzati. “Non ci sono turisti né strutture adeguate per accoglierli – spiegano alcuni giovani – Vanno tutti a Beni Mellal, a quaranta chilometri da qui, dove partono le escursioni per le montagne dell’Atlante”. Pochi si possono permettere l’università, che comunque si trova a Ben Mellal. E così, quasi sempre, l’unica alternativa per chi non vuole emigrare è di trovare occupazione nel campo dell’agricoltura, che, dopo le rimesse degli emigrati, rappresenta la voce principale dell’economia cittadina. Ulivi, arance, allevamento di mucche e pollame. L’unica cosa che a Fkih Ben Salah non manca è l’acqua. “E’ la più buona del Marocco – dicono orgogliosi gli abitanti – perché viene direttamente dalle nevi dell’Atlante”. Anche se la crisi economica globale ha messo in discussione la dura legge dell’emigrazione e i giovani che partono alla ricerca di fortuna sono sempre meno, il colpo d’occhio è devastante. In paese manca una generazione, quella compresa fra i diciotto e i quarant’anni. La generazione di Ruby.
“I primi a partire negli anni Ottanta siamo stati noi – ci spiegano alcuni anziani – ma il vero boom si è verificato dieci anni dopo”. Molti di loro, dopo una vita trascorsa in Italia, sono riusciti ad ottenere la cittadinanza italiana e il doppio passaporto. “Fra dieci, massimo quindici anni, anche a Fkih Ben Salah ci sarà un seggio per fare votare gli italiani all’estero”, dicono sorridendo. Forse non conoscono le storie “poco onorevoli” di alcuni parlamentari eletti all’estero, da Nicola Di Girolamo a Antonio Razzi fino a Sergio De Gregorio. “Noi siamo italiani e marocchini contemporaneamente – dicono – ma nel giro di pochi anni torneremo tutti a vivere qui. Il clima è migliore e la vita costa molto meno”.
Sanno molto bene, quegli anziani che trascorrono i loro pomeriggi al bar, che una loro giovane compaesana tiene sotto scacco il presidente del consiglio italiano. Di Ruby però non vogliono parlare. A domanda precisa tagliano corto, infastiditi. “Quella è una brutta storia – ribattono – L’Italia invece deve ricordare Fkih come una comunità di onesti lavoratori”. E la confidenza dimostrata un minuto prima diventa di colpo come un miraggio nel deserto.
di Lorenzo Galeazzi, Vittorio Malagutti, Massimo Paradiso
da Il Fatto Quotidiano del 10 marzo 2011