In principio fu Angela Merkel, cancelliere tedesco e alfiere di una linea chiara e intransigente in direzione di quelle riforme strutturali e di mercato viste come unica possibile via d’uscita dalla spirale perversa della crisi contabile europea. I 4mila miliardi messi in campo dai governi continentali per rilanciare il settore finanziario (nazionalizzazioni e garanzie sugli asset tossici) avevano agitato le acque con il rischio di fare affondare i conti pubblici. Lo scoppio della crisi greca e la repentina esplosione del dramma contabile in Irlanda, Portogallo e Spagna (con l’Italia, il Paese più indebitato del Continente, sempre alla finestra) avrebbero finito per rafforzare le convinzioni dell’esecutivo tedesco, sempre più tentato dall’irresistibile attrazione di una tassa capace di rastrellare centinaia di miliardi all’anno restituendo alle casse statali ciò che le banche e gli speculatori avevano rapidamente tolto.
I conti erano già noti. Secondo gli attivisti della campagna internazionale Make Finance Work, l’applicazione di un’imposta dello 0,05% su tutte le operazioni finanziarie condotte su valute, azioni, obbligazioni e derivati avrebbe garantito entrate complessive per 655 miliardi di dollari. Più o meno il Pil dell’Olanda, abbastanza per scongiurare qualsiasi ipotesi di collasso. Il 10 marzo 2010 il parlamento Ue adottò una risoluzione specifica chiedendo alla Commissione di valutare l’ipotesi. Venti giorni più tardi sarebbe arrivata la risposta. Negativa. La proposta, disse allora la Commissione, si scontrava con il rischio di violazione dei trattati di libera circolazione dei capitali, le prospettive di riduzione della liquidità e la possibile crescita del costo del capitale. Il coordinatore all’Economia e agli Affari Monetari dei Socialisti Europei Udo Bullmann rispose definendo il responso delle alte sfere di Bruxelles con una sola parola: “un insulto”.
Poi, improvvisamente, la svolta. A settembre la Commissione realizza un nuovo studio di fattibilità ipotizzando l’applicazione di un’aliquota dello 0,1% sugli scambi finanziari per un gettito complessivo valutato in 400 miliardi di euro all’anno. A rompere gli indugi, poco dopo, anche Nicholas Sarkozy. Il 20 settembre il presidente francese parla davanti alla platea dell’Onu dichiarando il proprio sostegno all’imposta. E’ chiaro, da quel momento, che la proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf) non potrà più essere seppellita tanto facilmente.
La speranza dei sostenitori, a questo punto, è che l’iniziativa europea apra la strada a provvedimenti analoghi nel resto del mondo. Un modo per colpire ulteriormente gli speculatori, ma anche per mettere a tacere la voce di chi (come Silvio Berlusconi che ha parlato di proposta “ridicola”) prefigura lo scenario apocalittico di un esodo dei capitali dall’Europa alla volta di lidi fiscali più favorevoli. Ipotesi, quest’ultima, già smentita dai promotori del sistema di tassazione “alla fonte” o “approccio decentralizzato” (http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/17/robin-hood-tax-togliere-agli-speculatoriper-ridare-ai-cittadini/92652/), unica strategia fiscale in grado di vanificare l’elusione della tassa. Secondo Stephan Schulmeister, economista e convinto sostenitore dell’idea, un’imposta dello 0,05% applicata alla sola Europa consentirebbe di raccogliere circa 350 miliardi di dollari di gettito complessivo ogni anno.