Quando sono nata c’era già Berlusconi e ne ho viste davvero di tutti i colori, dalla depenalizzazione dei reati commessi da lui, al lodo Alfano per impedire i suoi processi, ma non avrei mai immaginato qualcosa come la riforma della giustizia varata il 10 marzo dal Consiglio dei ministri. Se questa riforma venisse approvata, cosa alquanto improbabile, la democrazia sarebbe in pericolo perché non esisterebbe più un potere giudiziario autonomo ed indipendente dall’influenza della politica.

Mi voglio soffermare solo su due punti che secondo me già bastano per evidenziare lo squallore di questa riforma: la responsabilità civile dei magistrati per gli errori giudiziari e l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione.

La riforma della giustizia prevede il principio di responsabilità civile per i magistrati che commettono un errore giudiziario, una sciagura per il nostro sistema processuale. I nostri padri costituenti non introdussero nel ’48 questo principio per tutelare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, per permettergli di valutare i casi senza alcuna pressione che potrebbe turbare l’esercizio imparziale della loro funzione. L’introduzione di questo principio rappresenta un’abrogazione implicita dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) per un motivo molto semplice: quale giudice affronterebbe con tranquillità un processo sapendo che se “sbagliasse” (termine molto relativo visto che due giudici potrebbero interpretare lo stesso caso in due modi completamente differenti) sarebbe soggetto a risarcimento? Come la mettiamo poi nei casi di assoluzione per insufficienza probatoria? Non ci sono prove sufficienti per una condanna che deve essere “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533 cpp), ma ci sono delle prove. Anche qui il giudice sarebbe tenuto al risarcimento, nonostante sia stato corretto nel rispetto del principio espresso dall’art. 533 cpp.?

Le vittime di errori giudiziari tra l’altro vengono già risarcite dallo Stato ed è giusto così perché, a differenza di quello che vanno blaterando Alfano e Berlusconi, il pm non è l’avvocato dell’accusa, ma il rappresentante dello Stato in giudizio (infatti il pm può anche chiedere l’assoluzione dell’imputato).

L’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, invece, comporta la disparità tra accusa e difesa. Dopo tante puntate nei salotti della politica a raccontare balle sulle minori prerogative della difesa rispetto all’accusa, hanno trovato il modo per farlo davvero, ma naturalmente a parti invertite. Se l’imputato viene condannato, può ricorrere in appello e in Cassazione, della serie “ritenta sarai più fortunato”. Se l’imputato viene assolto, invece, il pm non può fare appello e la sentenza definitiva è quella di assoluzione. Alla faccia della “parità delle armi” e in barba all’articolo 111 della Costituzione che stabilisce, appunto, la parità delle parti a livello processuale.

Berlusconi ha detto che con questa riforma Mani pulite non ci sarebbe stata, ma inavvertitamente si è dimenticato di spiegare la motivazione. Non ci sarebbero stati i ladri o sarebbero rimasti impuniti?

di Martina Di Gianfelice

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