Media & Regime

Ciò che Santoro non disse a Tremonti

Giovedì scorso, nella fossa di Annozero, Giulio Tremonti si è sbranato i leoni che gli ruggivano attorno. Del resto “fiere” assai poco temibili: Eugenio Scalfari, già di suo disadatto al mezzo televisivo e abbastanza bollito, Ferruccio De Bortoli a ripetere ovvietà (le ipotetiche quanto generiche liberalizzazioni salvifiche, le mitologiche piccole imprese e le fantomatiche “multinazionali tascabili” di un Paese che ormai stenta a esportare straccetti&pentolame) e Fausto Bertinotti nella gag risaputa dell’antagonista da retrobottega del farmacista.

Se si volesse fare dietrologia politichese, parrebbe il viatico in uno dei residui santuari della sinistra dura e pura all’incoronazione del commercialista di Sondrio quale più attrezzato e meglio posizionato aspirante al dopo Berlusconi. Insomma la “messa del cappello” sopra una candidatura che – allo stato dei fatti – resta ancora in grembo a Giove. Oppure il sintomo dell’esasperazione innanzi a uno scenario politico in cui la sedicente opposizione non riesce a far emergere un’alternativa purchessia all’inaffondabile ometto di Arcore. Comunque, ipotesi intrigante quanto – probabilmente – destituita di fondamento.

Piuttosto, quanto risulta con sufficiente evidenza dalla trasmissione è la difficoltà di Michele Santoro a muoversi su terreni diversi dall’esposizione del dolore sociale e dall’indagine giornalistica in materia giudiziaria. Bravo nella denuncia e nel padroneggiare le notizie sulle scelleratezze quotidiane della decadenza italiana (in cui l’occhio televisivo funge da angelo vendicatore), il noto conduttore si rivela un pesce fuor d’acqua se deve affrontare analisi che vadano oltre l’uscio di casa ingombro di spazzatura morale; che si confrontino con vicende un po’ più vaste dello strapaese. Difatti, l’altra sera un Tremonti professorale con annessa lavagna a fogli mobili puramente decorativa (su cui tracciare tre righe tre) ha potuto fare un figurone.


Diciamolo chiaramente: la descrizione tremontiana dei guasti prodotti dalla globalizzazione finanziaria è largamente condivisibile. Al massimo si potrebbe muoverle qualche appunto marginale, tipo retrodatarne l’avvio al 1973 (guerra del Kippur e colpo di stato in Cile: inizio della virtualizzazione dell’economia a fronte dell’aumento delle materie prime e prova generale dell’ordine neocon), rispetto all’indicato 1989 (caduta del muro di Berlino e fine degli equilibri che tenevano a bada il capitalismo). Ma sono quisquilie. Non era certo questo il punto su cui prendere in castagna l’astuto ministro, lo zar della nostra economia al lumicino. Perché il suo ragionamento fa acqua non sulle premesse, ma sulle conseguenze.

Tremonti dice gramscianamente: il tribunale della Storia prima o poi dovrà giudicare i responsabili di “questa” globalizzazione, che obbedisce esclusivamente agli interessi irresponsabili e alle pulsioni suicide di una plutocrazia che ha trasformato l’egoismo possessivo nell’unico metro di giudizio con cui guidare il mondo. Un mondo sempre più americanizzato, inebetito dal consumismo bulimico e frantumato dalle crescenti diseguaglianze. Ma qui da noi chi è il supremo propugnatore di questo modello di società se non il capo del governo di cui Tremonti è ministro? E se il giudizio del ministro è così drasticamente liquidatorio nei confronti delle politiche che mercificano tutto e tutti, che ci fa lui nel Popolo della Libertà/Impunità?

Ancora: Tremonti aggiunge che lo sgoverno planetario discende dalla perdita della capacità di controllo/regolazione da parte degli Stati nazionali. Qualcuno potrebbe obiettargli che il controllo/regolazione dei flussi finanziari e umani innescati dalla globalizzazione verrebbe meglio in uno spazio istituzionale allargato quale quello europeo, l’Unione. Sicché gli euroscetticismi propagandati dalla sua parte politica, con grancasse mediatiche al seguito, hanno il solo effetto di indebolire la resistenza del Vecchio Continente alle ondate destabilizzanti che ne mettono a repentaglio la tenuta sociale e politica. Difatti, giustamente Tremonti ha denunciato in trasmissione il fenomeno della xenofobia che dilaga anche nel Nord Europa. Senza trarne le doverose conseguenze in quanto non ci è stato chi provasse a richiamarlo al dovere della coerenza.

Ma restiamo alla perdita di capacità di governo degli Stati nazionali, che tanto preoccupa il superministro. Allora si sarebbe dovuto chiedergli di rendere conto del suo rapporto privilegiato con quella Lega che persegue il disegno di destrutturare ulteriormente lo Stato italiano. Lega di cui Tremonti è il massimo supporto, visto che fa finanza prosciugando ogni risorsa nazionale e locale allo scopo di attuare un federalismo da sfasciacarrozze, che consentirà ai boiardi bossiani di consolidare i propri feudi elettorali al Nord; in una sorta di neofeudalesimo prealpino che sa tanto di “comunità perimetrate e blindate”, prigioniere proprio di quella cecità che impedisce di ricostruire un sistema-mondo minimamente plausibile.

In conclusione, l’altra sera abbiamo avuto l’ennesima conferma che Berlusconi e il berlusconismo sono due cose diverse: il capo è nient’altro che spiriti animali incarnati, ma dietro di lui ci sono perfide intelligenze al lavoro. E che per batterle occorrerebbe qualcosa di più e di meglio dei soliti sussurri e grida.