I tagli al MiBac hanno quasi dimezzato le risorse destinate alla tutela, valorizzazione e promozione dei beni archeologici e storico artistici. Risorse che erano già largamente insufficienti e che rendono i tagli ancora più drammatici. Da questo autunno in poi una delle attività principali di chi si occupa di arte è stata la sottoscrizione a petizioni contro il rischio di chiusura di questo o di quel museo, distribuiti in maniera equa a nord e a sud della penisola. Villa Croce a Genova ha nel frattempo chiuso i battenti, sulle vicende del Museo Madre di Napoli invito a prendere visione del carteggio pubblicato sul sito tra il museo e la Regione Campania, il Palazzo delle Arti – sempre a Napoli – non sta tanto bene, il Macro di Roma, invece attende l’approvazione del bilancio al Comune, che dovrebbe finalmente arrivare a maggio, per poter venire a conoscenza dell’entità dei tagli. Aspetta, perché senza sapere di che risorse può disporre non ha modo di programmare. E’ una condizione addirittura peggiore di chi almeno sa già di quanto è stato decurtato il proprio budget di spesa, perché di fatto immobilizza qualsiasi attività.
Ci si può appellare alla vecchia massima per cui mal comune mezzo gaudio: nel resto d’Europa non va tanto meglio. Prendiamo due nazioni modello nella gestione della cultura contemporanea: l’Olanda ha annunciato di voler completamente riformare il sistema di supporto alle arti arrivando a tagliare la metà dei fondi destinati ad artisti e istituzioni, mentre a ottobre il governo inglese ha sforbiciato del venticinque per cento le risorse destinate all’Arts Council, l’organismo attraverso il quale vengono finanziate la maggior parte delle organizzazioni inglesi. Tuttavia in Inghilterra gli artisti e le organizzazioni indipendenti statali e private si sono associate e mobilitate, lanciando la campagna Save the Arts che ha l’obiettivo di coinvolgere non solo gli addetti ai lavori, ma soprattutto coloro per i quali musei e artisti lavorano: il pubblico. Il problema infatti è che se gli stanziamenti diminuiscono, diminuisce quella che potremmo chiamare la quantità pro capite di cultura (e diminuisce anche l’indotto che l’industria culturale genera e che viene ridistribuita sotto altra forma ai cittadini). La cultura, ci dicono in Inghilterra, non è un costo, ma un guadagno. Oltre a dire poi, in Inghilterra fanno.
Non che qui non accada: i musei sono attivi, capofila il Mambo di Bologna, nel dare informazione sulla situazione attuale e sulle sue conseguenze, ma colpisce il fatto che nei momenti in cui la protesta è pubblica come sabato scorso alla manifestazione in difesa della Costituzione e dell’Educazione, e in tutte le altre occasioni da settembre in avanti, le arti visive e i musei siano assenti sia nei discorsi, sia come presenze sul palco, sia come presenze organizzate in gruppi in piazza. Perché non si riesce a legare la protesta dei musei a quella della società civile? E’ quasi un paradosso, considerato che il mestiere di artisti e curatori è quello di lavorare sull’immaginario, e che la protesta cerca sempre una sua restituzione in immagine per essere efficace: è il caso delle copertine dei libri indossate dagli studenti durante i cortei di dicembre, che è un’immagine bellissima e più forte e più efficace di qualsiasi slogan, di qualsiasi testo. Le arti visive possono contribuire alla protesta, e allo stesso tempo hanno bisogno di riconoscersi come parte della sfera pubblica anche attraverso la protesta.
Ieri all’Accademia di Belle Arti di Brera Franco Berardi iniziava il suo corso in Sociologia della comunicazione. Ha deciso di svolgere il suo compito di docente insegnando come si organizza un’insurrezione, perché di fronte all’attuale situazione del sistema educativo italiano ritiene non esista altro che valga la pena insegnare. Racconta che il 25 maggio il Knowledge Liberation Front ha indetto una giornata di teach-in (dibattito) nelle banche: occupare i luoghi della dittatura finanziaria per risemantizzarli con la cultura che sotto i suoi colpi rischia di morire. Sarebbe bello se proprio dall’Accademia partisse un segnale talmente forte da far unire istituzioni e artisti per riprendere insieme lo spazio pubblico che è proprio e necessario all’arte, e per far sì che artisti e istituzioni prendano parola in quelle occasioni pubbliche che ci dicono non servire a nulla, e non è vero.
Nell’immagine, il poster per la campagna Save the Arts di Jeremy Deller e Scott King