Il criterio di sicurezza sismica rende "idonee" a ospitare centrali poche aree. In una mappa elaborata dai Verdi compaiono anche Montalto di Castro e Caorso tra i siti che il governo potrebbe scegliere. Puglia, Basilicata, Maremma e Monferrato tra le zone dove potrebbe sorgere il deposito di scorie
L’incubo nucleare giapponese porta Paesi come Germania e Stati Uniti a prendere in seria considerazione l’abbandono dell’atomo. In Italia, invece, la linea del governo “non cambia”. Per il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, quella degli anti-nuclearisti italiani non è altro che uno “sciacallaggio politico a fini domestici”. Per la maggioranza di governo, il ritorno all’energia atomica è una scelta non negoziabile. Fra i problemi da prendere in considerazione, però, resta quello della collocazione delle future centrali. E delle scorie radioattive da esse prodotte. Non solo perché l’Italia, come il Giappone, è un Paese a elevato rischio sismico. Ma perché 16 regioni su 20, anche governate dal centro-destra, hanno già detto che non vorranno centrali atomiche sul proprio territorio. Nonostante la promessa del governo di compensare con lauti incentivi le comunità che accetteranno i depositi radioattivi.
Montalto di Castro, Garigliano, Trino Vercellese, Caorso e Monfalcone: sono solo alcuni dei siti sui quali dovrebbero sorgere le nuove centrali nucleari. Località elencate in un dossier eseguito dai Verdi nel dicembre 2009: una lista di possibili siti che ha fatto molto discutere, provocando reazioni di allarme in tutte le regioni italiane. E le smentite dell’Enel: “I siti per la realizzazione delle centrali nucleari in Italia”, aveva prontamente affermato la compagnia elettrica, “saranno individuati solo successivamente alla definizione da parte dell’esecutivo e dell’Agenzia per la sicurezza nucleare dei criteri per la localizzazione”.
I primi ad occuparsi della possibile ubicazione delle nuove centrali volute dal governo sono stati però gli attivisti di Greenpeace. Che, già nel maggio 2009, diffusero due “carte nucleari” ormai dimenticate: la carta del Cnen (Comitato nazionale per l’energia nucleare, diventato Enea nel 1982), un insieme di varie carte tematiche elaborate negli anni ’70, e l’elaborazione Gis per la localizzazione del deposito nazionale per le scorie nucleari, elaborata dalla “task force” ad hoc del 1999-2000. L’organizzazione ambientalista ha analizzato queste mappe nucleari, prendendo in considerazione i diversi criteri di valutazione usati dalle autorità competenti (il criterio sismico e quello della vulnerabilità delle coste dovuta ai cambiamenti climatici). Secondo Greenpeace, dalla vecchia carta del Cnen per la localizzazione dei siti vanno eliminate molte zone costiere, concentrandosi solo su aree a rischio sismico ridotto. In questo modo, della lunga lista di località “idonee” (sparse in 22 provincie su tutto il territorio nazionale), rimangono pochissimi siti su cui puntare l’attenzione: la provincia di Vercelli, quella di Pavia, l’isola toscana di Pianosa, e le province sarde dell’Ogliastra, di Nuoro e di Cagliari.
Insomma il criterio sismico concede poche possibilità alla rinascita del nucleare italiano. Per il ministro Renato Brunetta, però, l’Italia è un Paese “parzialmente” sismico: “In alcune aree – sottolinea il ministro – non ci sono mai stati terremoti, e questo è già presente nelle valutazioni sui siti e sulle centrali che si costruiranno”. Di opinione opposta il Comitato Vota sì per fermare il nucleare che, durante la presentazione sabato scorso a Roma della sua campagna referendaria, ha denunciato: “Quello che sta accadendo in Giappone è la conferma drammatica, cui nessuno di noi avrebbe voluto assistere, del fatto che il nucleare a prova di incidenti non esiste, che la sicurezza delle centrali atomiche è una favola alla quale gli italiani non crederanno”.
Ma nucleare non significa solo centrali. Ma anche gestione e smaltimento di scorie radioattive. Dove andranno a finire? Sogin, la società per la gestione degli impianti nucleari controllata dal ministero dell’Economia e delle finanze, ha individuato lo scorso settembre 52 siti adatti ad ospitare residui di varie gradazioni di radioattività: aree di circa 300 ettari l’una, situate in particolare nella provincia di Viterbo, in Maremma, nella zona fra Puglia e Basilicata, oltre che sulle colline emiliane e del Monferrato. Ma anche qui c’è poca chiarezza, perché la scelta del deposito nazionale verrà fatta, se o quando sarà il momento, in accordo con le singole Regioni. Promessi cospicui compensi a tutte quelle che accetteranno di ospitare i depositi radioattivi. Una soluzione che non sembra però allettare Luca Zaia, Roberto Formigoni o Renata Polverini, tutti presidenti (eletti nel centro-destra) di regioni che, a quanto pare, sono “già autosufficienti dal punto di vista energetico”.
Incentivi economici o meno, ora sta al Senato esaminare l’atto del governo sulla disciplina di localizzazione degli impianti nucleari italiani, previsto all’esame della commissione Industria. La valutazione, che si compierà entro domani, riguarderà il tipo di reattori da realizzare e la loro collocazione: problema che, comunque, a quasi un anno dal via libera del Parlamento al ritorno del nucleare in Italia rimane ancora completamente irrisolto.