«Come minimo ora è necessario un ripensamento veramente serio sulla sicurezza del nucleare . Mi sembra invece che molti dei nostri governanti per ora abbiano visto il lato ottimista della cosa: impariamo dagli errori, poteva anche andare peggio…Lo trovo peculiare come atteggiamento. Anche noi siamo pieni di zone sismiche e dovremmo riflettere bene su quello che vogliamo fare». Massimo Zucchetti, ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Torino e ricercatore presso il Mit di Boston è scettico sulla marcia indietro tardiva messa in scena dai rappresentanti dell’esecutivo dopo il disastro in Giappone. In effetti le parole di Stefania Prestigiacomo, intercettate dai cronisti, rendono legittimo il sospetto che la presa di coscienza sia più che altro elettorale. Le notizie che arrivano dal Sol Levante intanto continuano a essere preoccupanti e il livello di gravità dell’incidente, inizialmente sottostimato dai giapponesi, è passato dal 4 al 5. Gli occhi sono tutti puntati sui reattori e sulla precaria integrità delle strutture di contenimento primarie.
«Ci sono due aspetti di rischio – spiega Zucchetti al fattoquotidiano.it – da una parte, anche se non sappiamo ancora in che termini, c’è stata una fusione parziale del nocciolo nei reattori. Crescendo la temperatura, tutti i materiali possono liquefarsi, perdendo quindi la loro integrità fisica e rilasciando all’interno del contenitore primario molta radioattività. Dall’altra parte salendo la temperatura si ha una reazione chimica fra lo zirconio, la camicia dentro cui le barre di combustibile sono alloggiate e l’acqua, il che produce ossido di zirconio e idrogeno. L’idrogeno è un esplosivo e dà luogo agli scoppi a cui abbiamo assistito negli scorsi giorni. Questo, oltre a danneggiare le strutture interne del reattore, riducendolo a un rottame, può anche compromettere l’integrità dell’ultima barriera, quella a cui tutti guardiamo con speranza e apprensione. Si tratta del contenitore primario in cemento, quella enorme struttura semisferica o quasi che si vede da lontano e che caratterizza le centrali. Adesso quasi tutta la radioattività è contenuta lì, quindi i rilasci sono stati ancora, diciamo, abbastanza contenuti, proprio perché sembra che per ora queste strutture, non si sa come, stiano tenendo. E dico non si sa come perché il terremoto che gli è picchiato addosso era mezzo grado di scala Richter oltre il massimo per cui erano progettati. Il che significa 6 volte la loro l’energia massima sopportata».
Questi contenitori di cui lei parla sono i cosiddetti vessels?
Non esattamente. Il vessel è la struttura di acciaio che contiene il reattore, che ha dimensioni di un paio di metri di lunghezza e mezzo metro di larghezza. Il nocciolo del reattore in pratica. Il nocciolo, i tubi di refrigerazione e il vessel sono contenuti dentro il contenitore primario in cemento. Nei due casi più gravi, quelli del reattore due e tre, credo che il vessel sia completamente distrutto, il combustibile liquefatto in parte, le strutture interne del reattore compromesse. Tutto però è contenuto all’interno di questo contenitore primario, che sembra reggere. La differenza con Chernobyl per ora è un po’ questa, che a Chernobyl questo contenitore di fatto non c’era…
Quindi gli scenari possibili ora quali sono?
Dobbiamo partire dal fenomeno fisico per cui i reattori nucleari anche da spenti continuano a emanare calore. Un calore che però col tempo diminuisce. Dopo ad esempio tre giorni il calore residuo è ridotto a meno di un decimo di quello iniziale. Da una parte viene da pensare che se non si sono verificati fenomeni ancora più gravi nei primi giorni, ora le possibilità diminuiscono. Questo è lo scenario buono, in cui, per quello che le autorità giapponesi ci raccontano, i contenitori primari hanno retto e il calore pian piano va diminuendo. La radioattività, il grosso diciamo, rimane quindi all’interno.
E quello brutto?
E’ quello in cui il contenitore cede e tutta la radioattività viene rilasciata all’esterno. Non bisogna augurarselo.
Ma le misure che si stanno tentando sembrano già disperate: le pompe, gli elicotteri che innaffiano i reattori, il fatto che non si riesca a intervenire in maniera adeguta perché c’è troppa radioattività…
Sì, in effetti queste immagini a un esperto di sicurezza fanno rizzare i capelli in testa e ricordano molto quei voli degli elicotteristi che sopra a Chernobyl gettavano sabbia e cemento. Lo scenario però è un po’ diverso. I giapponesi stanno intervenendo da un lato per cercare di ripristinare il collegamento elettrico che faccia funzionare i sistemi di refrigerazione e dall’altro cercando di innaffiare con acqua di mare. Una misura chiaramente non standard.
Il rilascio di radioattività c’è stato quindi?
Si in particolar modo negli immediati paraggi, perché quando le strutture interne al reattore fondono parzialmente, diventano esse stesse fonte di radioattività. Ma il grosso non sembra fortunatamente essere uscito.
La zona di sicurezza, quella di 20 km, poi estesa a una sessantina, potrebbe subire anche un inquinamento radioattivo nel suolo e nelle falde?
No, non dovrebbe essere il caso. La “sindrome cinese”, quella del film per intendersi, per cui il nocciolo ad altissima temperatura perfora il suolo, non è uno scenario realistico. I reattori, al di sotto, hanno dei sistemi di contenimento in grado di ospitare anche il nocciolo totalmente fuso. In parte questo successe a Chernobyl, dove si dovette costruire una soletta di cemento per separare il reattore dal terreno, esponendo a dosi letali di radiazioni alcune migliaia di lavoratori. Mettiamola comunque così: se si verifica lo scenario buono, come diciamo a Torino, bisogna accendere un cero alla Consolata.