Se si invita Toni Negri si può passare un pomeriggio a sognare, studiare, mobilitare. Il filosofo dalla lunga storia è stato chiamato dal centro Bartleby proprio il 17 marzo, nel pomeriggio del giorno dei proclami, dei doppiopetti, dei tricolori, dei bersaglieri e dei leghisti confusamente dissidenti. I carabinieri sono a due passi, in via de’ Bersaglieri, Scienze politiche dà il suo retro, in via Guerrazzi.
Negri arriva alle sei del pomeriggio. Si aggira un poco per la sala. Pochi lo riconoscono, fra i ragazzi i cui genitori nemmeno si conoscevano trentatre anni fa, quando a Padova il giudice Calogero ordinava di arrestare tutti gli ex capi di Potere Operaio. In testa Negri, il filosofo dell’Autonomia operaia, etichettato con qualche approssimazione. Cattolico, poi socialista, operaista con gente come Panzieri, Tronti, Cacciari, teorico del rifiuto del lavoro, autore di libri già sospetti nel titolo, Dominio e Sabotaggio. Compirà 78 anni ad agosto, è dritto come un fuscello, ribelle come i capelli e l’agitarsi.
In sala ci sono più di trecento giovani, sono studenti che questo venerdì alle 17 si danno appuntamento a Lettere per «nuove forme di lotta». Una decina sono i vecchi compagni del ’68, della rivolta bolognese dell’11 marzo ’77 appena celebrata da ex dai capelli bianchi. Franco Berardi, Bifo, arriva dalla lezione di insurrezione a Brera, annuncia di andare ad occupare il 25 marzo la banca di fronte all’Accademia milanese contro la «finanziarizzazione», ma anche in nome di «cultura, poesia, amore» e soprattutto dei precari come lui senza una lira. Stefano Bonaga baruffa con Negri su «darwimismo» e «determinismo», su necessità e volontà. Parlano di politica, da professori di filosofia. I ragazzi lo capiscono, si dividono. Si trovano d’accordo su Spinosa e il fatto che il concetto di libertà va riempito di elementi concreti. «Da sola non sappiamo cosa farcene» dice Negri.
Non è una lezione, anche se in diversi danno al professore del lei. E’ un appuntamento di una politica comunque altra. Antagonista a tutti e tutto. Nelle strategie e nel linguaggio. Comune: oltre il privato e il pubblico si intitola il libro sul tavolino di fronte a Negri. Lui lo ha scritto con Michael Hardt, l’allievo americano, prima in inglese che in italiano. Come Impero e Moltitudine, grandi successi negli Usa e nel mondo. Negri, il condannato, il deputato di Pannella, il fuggitivo tornato quando i fuochi del terrorismo e degli anni di piombo si erano spenti, è il capofila del pensiero operaista. Ha aperto le porte oltre Oceano a vari suoi allievi. Compreso il bolognese Bifo, precario qua, conferenziere negli Usa.
Per tre ore ai giovani del Bartleby parla del capitalismo globale, della «fine dell’egemonia dell’industria sulla finanza». «Ora la finanza ha centralizzato in sé la potenza di comando». «Non c’è più classe lavoratrice nelle fabbriche, l’unità è saltata nell’era dell’automazione e dell’informatizzazione in cui non si misura più il tempo di lavoro per determinare il salario». La «mobilità e la flessibilità» per Negri sono un valore positivo, che però il capitalismo domina come precarizzazione, nuovo sfruttamento. «Il rapporto di sovversione è mettere insieme le singolarità della forza collettiva. La Moltitudine. Costruire una nuova struttura di vita».
Il Comune è questo. E il professore indica ai ragazzi «le rivendicazioni dall’altra parte del Mediterraneo». A lui, che è stato consulente del venezuelano Hugo Chavez, ricordano «le lotte in America Latina». Le nuove libertà. I giovani i paragoni con il Maghreb li vedono nella manifestazione romana del 14 dicembre scorso. Negri, il professore, li sbalza mezzo secolo prima, allo sciopero Fiat, ai sindacati che firmarono un contratto separato per l’industria metalmeccanica di Stato escludendo la privata, al confluire degli operai in piazza Statuto a Torino. Contro la Uil. «Tre giorni di scontri».