Trovo emblematico che un “pensionato” come Romano Prodi abbia sentito il bisogno di prendere la penna per firmare, con un altro ex presidente della Commissione europea (Jacques Delors) e un ex primo ministro belga (Guy Verhofstadt), un bell’articolo sul Financial Times del 3 marzo: “Europe must plan a reform, not a pact“.

L’argomento centrale dell’articolo è, a mio modo di vedere, il seguente: siamo tutti più o meno d’accordo sul bisogno di una governance economica più efficace, ma le soluzioni presentate da Francia e Germania sotto il nome di competitveness pact sono fondamentalmente inadeguate. Lo sono, secondo i tre autori, perché provengono da due Stati e non dalla Commissione europea; e perché (probabilmente a causa della loro provenienza) si basano su un meccanismo di tipo intergovernativo – proprio quel meccanismo che ha fallito più volte, dalla strategia di Lisbona al patto di stabilità e crescita. E ha fallito perché gli Stati sono naturalmente restii a sanzionarsi l’un l’altro.

Proprio per questo motivo evidente ed inevitabile, ricordano gli autori, 60 anni fa fu “inventata” la Commissione europea: per proporre e applicare soluzioni comunemente concordate. E qui risiede la chiave per uscire dalla crisi attuale. Niente di nuovo, dunque, ma al tempo stesso una piccola rivoluzione. Come Stéphane Hessel che rispolvera valori che furono fondanti, più di mezzo secolo fa, delle società in cui viviamo e che ci mostra quanto da quei valori ci siamo nel frattempo allontanati e quanto invece essi sarebbero (o dovrebbero essere) ancora fondanti.

In effetti anche a me pare logico che, se non si affidano le sanzioni a meccanismi automatici e a un “arbitro” riconosciuto imparziale quale la Commissione, tutto lascia supporre che di sanzioni non ce ne saranno mai, e che quindi non ci saranno deterrenti. E che quindi i responsabili nazionali, sotto pressione della stampa e dei partiti, continueranno a preferire la visione di breve termine e costruire i presupposti per la bancarotta a medio termine.

Un elemento da non sottovalutare è la posizione della cancelliera Merkel, voce autorevole (e a volte autoritaria) nel consesso dei 27. Il 2 novembre 2010 la Merkel fece un discorso al Collegio d’Europa a Bruges. Ne lessi il testo (nella traduzione inglese) e mi lasciò perplesso. Per molti versi lo trovai ancora più euroscettico del famoso discorso della Thatcher nell’88. Adesso me lo sono riletto e confermo il mio giudizio; non sarei sorpreso se lo speechwriter della Merkel si fosse ispirato proprio al discorso della Thatcher.

Semplificando drasticamente, nel suo discorso la cancelliera critica la dicotomia “metodo intergovernativo / metodo comunitario”, sostenendo che tanto il metodo comunitario si applica solo laddove gli Stati hanno deciso che si applica (il che è vero, peccato che non l’abbiano spiegato prima dei referendum sul Trattato di Lisbona). Quindi, dopo una spiegazione piuttosto conservativa dei ruoli istituzionali stabiliti dal Trattato, passa a difendere un modello alternativo, che chiama il “metodo dell’Unione”. Lo fa usando l’esempio della politica energetica, e finisce praticamente per spiegare la “vecchia” strategia di Lisbona: si concordano gli obiettivi dell’Ue (per esempio sull’efficienza energetica), poi si declinano in piani nazionali e si passa all’attuazione. Piccolo dettaglio: se si vuole costruire una rete di trasporto dell’energia in Europa, un problema locale nell’attuazione (mancano i fondi, le autorizzazioni, la popolazione non ne vuole sapere…) diventa un problema europeo. Questo la Merkel ha l’onestà di spiegarlo, ma come ci si faccia fronte nel ‘metodo dell’Unione’ non è dato saperlo. L’esempio si chiude con la frase “È adesso cruciale agire in modo coordinato e spiegare ai nostri cittadini che lo stiamo facendo. Dobbiamo dire loro che se impediscono a certi progetti di avanzare, non stanno solo bloccando qualcosa in Germania, stanno anche ostacolando il processo di azione coordinata dell’Unione” (traduzione mia).

Ora immaginiamo che, nel quadro della futura governance economica, un Paese – facciamo il Portogallo – sia costretto a varare misure di austerità per rispettare un rientro del debito concordato con i partner europei. I portoghesi potrebbero non apprezzare e protestare, mettendo in discussione la leadership politica come accaduto in Irlanda. Il primo ministro portoghese potrebbe senza dubbio spiegare ai suoi cittadini che lui vorrebbe pure azzerare le tasse e continuare a ballare e bere come sul Titanic, ma che così facendo “ostacolerebbe il processo di azione coordinata dell’Unione”. Dubito che l’argomento sarebbe convincente…

Siamo onesti: il metodo suggerito da Prodi-Delors-Verhofstadt funzionerebbe molto meglio. Nell’esempio fittizio portoghese scatterebbero sanzioni automatiche (il che vuol dire, con tutta probabilità, che sarebbe la Commissione a proporre queste sanzioni una volta constatato il superamento di cere soglie). La classe dirigente portoghese, assistita dalla stampa di mezza Europa, si potrebbe dedicare al solito sport di “tiro su Bruxelles”. Il capro espiatorio ideale, la Commissione, si vedrebbe addossate molte delle colpe della situazione. Ma intanto il peggio sarebbe evitato e i risultati arriverebbero.

Insomma, il cosiddetto metodo comunitario (che tra l’altro sotto il Trattato di Lisbona si dovrebbe chiamare esso stesso ‘metodo dell’Unione’, visto che la Comunità non esiste più) a me sembra più efficace di altri, anche e soprattutto perché permette a esponenti di governo sotto forte pressione politica interna di scaricare una buona parte di questa pressione verso Bruxelles (questa, forse, è la migliore definizione pratica che si potrebbe dare del principio di sussidiarietà!).

La penso, quindi, come i “pensionati” Prodi, Delors e Verhofstadt. Peccato che questa linea di pensiero sia attualmente minoritaria in Europa. Vista la posta in gioco, c’è da sperare che abbia ragione chi la pensa come la Merkel.

Disclaimer: Come riportato nella bio, il contenuto di questo e degli altri post del mio blog è frutto di opinioni personali e non impegna in alcun modo la Commissione europea.

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