Trovarsi in guerra senza nemmeno sapere perché. Questo ormai tocca in sorte a milioni di persone, milioni di telespettatori che prima assistevano ai salamelecchi pro Gheddafi e ora vedono le immagini dell’attacco militare occidentale, poi vedranno una guerra ancora più grande e catastrofica. Era un’altra musica nell’ottobre 2008, quando Giulio Andreotti, Nicola Latorre, Vittorio Sgarbi e Beppe Pisanu erano al cospetto del Colonnello con la loro brava fascia verde e il cappello bipartisan in mano, grati per il fresco impegno libico che salvava la banca Unicredit dal disastro innescato dagli scricchiolii finanziari dell’Impero in crisi. La spola di politici italiani per Tripoli era continuata per anni, sotto l’occhio benevolo di Re Bunga Bunga. Ma ora hanno tutti votato per la guerra. Perché?
Escludiamo i motivi umanitari. Nicolas Sarkozy solo pochi mesi fa offriva aiuti militari a Ben Alì per soffocare nel sangue l’inizio della rivolta tunisina. David Cameron e Barack Obama non hanno mica bombardato i carri armati del re del Barhein, che invece continua a sparare sulla gente che protesta, mentre l’Onu dorme. Zapatero e Berlusconi non hanno offerto le loro basi per imporre un’urgente No Fly Zone sopra il cielo di Gaza mentre Israele bruciava la popolazione civile con il fosforo bianco e le bombe Dime. Piero Fassino, responsabile esteri del Pd, durante la strage di Gaza, esprimeva solidarietà a Israele. Nessuno convoca il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per ordinare lo stop ai droni di Obama che un giorno sì e l’altro pure fanno strage fra i civili in Pakistan. Gli esempi diventerebbero decine, a cercarli, ma la facciamo breve: le guerre non sono mai mosse da motivi umanitari. Le guerre “umanitarie” sono così umanitarie che bombardano gli ospedali, sempre. Stavolta persino dal primo giorno. I moventi, se non siamo gazzettieri a rimorchio delle bugie del potere, li dobbiamo cercare altrove. Suggerisco in proposito l’interessante lettura geopolitica offerta da Piero Pagliani, che racconta bene il ruolo cruciale della strategia africana degli Usa.
Perché l’Italia ha dunque scelto la guerra?
La Storia a volte si presenta con il volto dell’ironia e del paradosso delle date. Proprio appena passata la festa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ossia un giorno che dovrebbe esaltare la sovranità nazionale, abbiamo fatto vedere al mondo che viceversa siamo definitivamente un paese senza sovranità, senza più i distinguo del passato, né le navigazioni ambigue democristiane, le fiammate di autonomia di certe nostre aziende, le impuntature di certi nostri apparati. Senza più la guardinga sottomissione atlantica di un tempo, quando si battevano lo stesso anche le strade sgradite a Washington, Londra e Parigi, in nome di interessi da non liquidare: in nome cioè di una sovranità limitata ma non azzerata. L’attacco alla sovranità della Libia coincide con la fine della sovranità italiana. Due piccioni con una fava, con la desolante complicità del sistema politico, dal Quirinale ai peones di Montecitorio, fino alle redazioni, con qualche spaesata eccezione.
Quali pressioni sono intervenute per spingere questa classe dirigente a non far più valere un trattato di fresca firma come quello fra Italia e Libia? Si tratta di pressioni enormi, in tutta evidenza. L’Italia ha rinunciato di colpo a ogni sua politica autonoma nel Mediterraneo, l’unico suo spazio agibile, e in campi cruciali: l’energia, l’immigrazione, l’influenza geopolitica. Prosegue (anzi, precipita) la linea di ritirata della nostra sovranità economica, lungo quello stesso tracciato che negli anni Novanta ha portato alle privatizzazioni selvagge e al vistoso declino della posizione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Per entrare in Libia dovremo chiedere permesso ad altri soggetti.
Nel 1998, quando cadde il primo governo Prodi, il governo D’Alema si formò grazie a massicci via vai di deputati e senatori (da Cossiga a Cossutta), che spaccavano e ricomponevano i gruppi parlamentari: insieme garantirono agli Usa la stabilità di governo indispensabile per usare in tutta tranquillità le basi militari da cui partivano gli aerei anche italiani che pochi mesi dopo bombardarono la Jugoslavia. È un precedente che ci permette di leggere quanto è avvenuto recentissimamente. Non credo che il rientro sfacciato e perfino precipitoso nel Pdl da parte di decine di parlamentari che lo avevano abbandonato per il nuovo partito di Gianfranco Fini sia stato tutto frutto di una compravendita. È più probabile che molti siano stati soggetti a un contrordine, qualcosa che – superata la stoffa dei loro cappucci – dev’essere suonata più o meno così: “Non è più il momento di far cadere il governo, stiamo per fare una guerra in Libia; Silvio, che pure manderemo via, ora ci serve, e sarà ben contento di tirare a campare ancora, non è mica uomo di principio; fate la vostra parte”. E quelli hanno ottemperato alle loro Obbedienze. È gente con molto pelo sullo stomaco: al Caimandrillo concedono le acrobazie giudiziarie più indecenti; lui, in cambio, concede loro la guerra che piace colà dove si puote ciò che si vuole.
E mentre nel 1999 Cossutta faceva sì che in piazza non si facessero troppe manifestazioni contro la guerra, oggi non c’è più nemmeno bisogno di pompieri. La capacità di comprensione della situazione internazionale dell’elettorato di opposizione è stata nel frattempo desertificata. I partiti che ancora prendono i voti di questa opposizione sono invece seduti alla tavola di chi si è mangiato persino le vestigia della sovranità nazionale. Un Paese così decapitato sarà più esposto alle tragedie di una transizione geopolitica che si presentava già difficilissima.
di Pino Cabras, Megachip.info