Libia: perché è giusto intervenire

Ecco l’intervento di Mimmo Lombezzi, inviato di guerra, che replica all’articolo di Massimo Fini contro l’intervento in Libia.

Se c’è un posto in Italia in cui bisognerebbe portare gli studenti è il cimitero americano di Nettuno. Lì fra 7.862 lapidi è possibile leggere il nome del “private” Peter P. Di Benedetto arruolato nella 34th Infantry Division e caduto il 7/1/1944, o di Michael C. Anzalone arruolato come marinaio nella Us Navy “missing in action” o “sepolto in mare” il 11/7/1944, o di Biagio Caracciolo, arruolato nel 68mo reggimento di artiglieria costiera e morto il 5 aprile 1944, o di Michael J. Bellonio primo luogotenente dell’ 840mo squadrone di bombardieri dell’Us Air Force, ucciso il 15 luglio 1944….etc.etc.

Nomi di italiani d’America venuti giovanissimi a morire ad Anzio o su altri fronti, per restituirci la democrazia che avevamo consegnato all’alleato di Adolf Hitler. Sarebbe una “gita didattica“ importante soprattutto oggi che Mussolini, cioè l’uomo che aveva ordinato l’omicidio di Matteotti, spedito ad Auchswitz 8000 ebrei e dimezzato la popolazione della Cirenaica, viene lentamente “sdoganato” e che piazza Duomo subisce l’affronto di vedere esposti i labari insanguinati della Decima Mas. Se gli angloamericani avessero applicato il principio internazionale di “non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano”, citato da Massimo Fini sulle pagine del Fatto Quotidiano, per opporsi a qualsiasi intervento armato in Libia – l’Italia avrebbe subito la vergogna del Fascismo per altri 20 o 30 anni.

Che senso ha, inoltre, evocare “il diritto di autodeterminazione dei popoli“ di fronte a un gentiluomo che risponde alle prime dimostrazioni del suo popolo (in 40 anni) con le mitragliere? Fini cita poi, come esempio di ingerenza inopportuna, l’intervento Nato in Serbia. “All’interno di uno Stato sovrano” scrive “c’era un conflitto fra Belgrado e gli indipendentisti albanesi, foraggiati dagli americani, del Kossovo che della Serbia faceva parte.” Bene, va ricordato: 1) che prima di scegliere la via della lotta armata gli albanesi del Kossovo lottarono per anni in modo assolutamente pacifico, ricambiati con una repressione spietata. 2) che espellendo un milione di albanesi verso la Macedonia e l’Albania Milosevic usò i rifugiati come arma di ricatto verso l’Europa proprio come vorrebbe fare Gheddafi, buon emulo del dittatore Serbo. 3) il timore, legittimo, che Milosevic avrebbe “risolto” il problema del Kossovo con gli stessi metodi che in Bosnia portarono alla vergogna di Srebrenica.

“Noi, che non abbiamo baciato la mano a Gheddafi – scrive Fini – e che parteggiamo per i rivoltosi di Bengasi siamo assolutamente contrari a qualsiasi intervento armato in Libia”. Ora, a 20 anni dalla distruzione di Vukovar (la cittadina Croata rasa al suolo dai Serbi nel 1991) a 17 anni dal Rwanda e a 16 anni dalla mattanza di Srebrenica, bisognerebbe scrivere la storia di tutti i massacri causati dal “pacifismo”, o meglio dalla “non-ingerenza”, dal non intervento armato. In Rwanda sarebbero bastati 5000 uomini a fermare i machete che, in tre mesi, avrebbero macellato lentamente, inesorabilmente, mangiando e bevendo birra , 800.000 Tutsi. A Sarajevo sono bastati tre giorni di raid per fermare l’assedio che aveva ucciso, per tre anni e mezzo, lentamente, inesorabilmente, cantando e bevendo rakia, 14.000 persone. Nel 1993, per il Tg5 di Mentana, filmai 1500 pacifisti che sfilarono per le strade di Sarajevo gridando “Mir!” “Pace!” Ai microfoni della Rai Raniero La Valle disse “ Abbiamo portato la pace nella città della guerra!”. I cannoni ripresero a lavorare pochi minuti dopo la partenza del convoglio. “La ‘No fly zone’ nel nord dell’Iraq ha protetto i Kurdi dai massacri di Saddam Hussein e ha salvato molte vite in Kossovo e in Bosnia”, scrivono i famigliari delle 270 vittime del volo 103 della Pan Am abbattuto da una bomba dei servizi libici nel cielo di Lockerbie: “Il fatto di non averla imposta nel sud dell’Iraq ha permesso a Saddam di schiacciare dopo la guerra del Golfo del ’91 la ribellione che lo avrebbe deposto e avrebbe evitato la seconda guerra del Golfo”.

Perché oggi è giusto fermare Gheddafi ? Per le migliaia di giovani formatisi su Facebook (e non nelle madrasse) che sono scesi in piazza contro i fucili del raìs. Per gli ufficiali libici che hanno preferito morire fucilati piuttosto che sparare sul loro popolo. Per Mohammed Nabbous, il blogger ucciso dalle milizie di Gheddafi mentre documentava l’aggressione a Bengasi . Per riscattare la memoria dei lager, degli stupri, delle forche e delle “marce della morte” che hanno scandito l’occupazione italiana della Libia. Perchè quando le telecamere entreranno nei lager dove vengono stuprate le rifugiate eritree che avevamo “respinto”, il paese che si vanta di combattere lo “stalking” forse avrà qualche imbarazzo.

Soprattutto, bisogna intervenire per dare una chance alla democrazia in un paese vicino dopo aver speso un decennio ad “esportarla” lontano soprattutto per baciare le mani a Bush. “Nessuno” scrive Massimo Fini “ha mai proposto una “no fly zone” in Cecenia dove le armate russe di Eltsin e “dell’amico Putin hanno consumato il più grande genocidio dell’era moderna: 250 mila morti su una popolazione di un milione”. E’ vero. Ma se in Libia possiamo farlo perchè non cominciare da qui?  “Se gli Usa non agiscono e Gheddafi vince” conclude Paul Hudson padre di una delle vittime di Lockerbie e co-presidente dell’Associazione delle Famiglie del volo Pan Am 103 “gli Stati Uniti avranno rimesso in piedi un vecchio nemico e mandato il messaggio a tutte le forze democratiche sottoposte a regimi oppressivi che siamo solo degli inefficienti, inaffidabili e ipocriti succhiatori di petrolio (oil sucking hypocrites)”.

“La speranza se mai è che l’intervento armato non arrivi troppo tardi perchè “Dalla ferita inferta maldestramente a un tiranno” scrive Stanislaw J. Lec “sgorga un mare di sangue altrui”.

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