La guerra è già scoppiata, con buona pace del Presidente della Repubblica che la nega, e sarà una guerra ancora una volta fondativa: di nuovi equilibri e di nuovi corsi politici. Nonostante l’attacco alla Libia si ammanti di ragioni umanitarie e progressiste – la difesa dei civili – non si possono omettere domande e considerazioni rilevanti.
La “comunità internazionale” si è accorta solo ora che Gheddafi è un pericolo? che la popolazione civile libica viene umiliata e, ora, massacrata? Perché hanno fatto a gara a stipulare contratti, a vendere armi, a sostenere un regime impresentabile? Gheddafi andava bene fino a quando garantiva commesse petrolifere e bloccava il flusso degli immigrati dal sud al nord e diventa un nemico da eliminare quando la popolazione libica – e non altri! – lo ha messo in crisi e alle strette? E perché intervenire con tale ritardo e non quando Gheddafi era schiacciato all’angolo e chiuso in qualche bunker? Rispondere che dietro tutto questo c’è un ragionamento geopolitico e una spinta al profitto è fin troppo facile. Così come è facile vedere come le potenze occidentali abbiamo ricominciato il loro “piccolo risiko” nordafricano con un gioco di alleanze e competizioni incrociate di cui, stavolta, la vittima sacrificale è l’Italia. Lo scontro diplomatico che si è aperto tra la Farnesina e il Quai d’Orsai lo dimostra con clamore. Gli Usa hanno agito nello stesso modo e l’Italia si è ritrovata al traino di una situazione che non ha voluto e che, anzi, ha cercato di evitare per molto tempo. E mentre il filo-Usa La Russa cerca di sembrare l’allievo modello agli occhi di Washington, Berlusconi mastica amaro perché la guerra è anche contro la sua politica estera e di approvigionamento delle fonti energetiche. Gli Usa lo avevano avvertito più volte e i dispacci resi pubblici da Wikileaks lo avevano confermato: l’amicizia con la Libia non piaceva all’amministrazione statunitense e oggi è venuta l’occasione per regolare un po’ di conti. Come si vede, il destino del popolo libico c’entra poco.
Si va quindi alla guerra ma c’è qualcuno che ha tratto un bilancio serio delle altre guerre umanitarie? Davvero non si vede che l’Afghanistan è terra di nessuno, che l’Iraq è restato un campo di battaglia e che, dopo dieci anni, anche il Kosovo sta per esplodere di nuovo? Gli analisti più seri possono davvero sostenere che la politica, inaugurata agli inizi degli anni 90 da Bush senjor e poi rilanciata da Bush figlio abbia aiutato l’umanità, i popoli, il miglioramento della qualità delle relazioni internazionali? O non sia servita, invece, a migliorare l’approvvigionamento petrolifero degli Usa, e a riequilibrarne per via militare il declino economico? Non solo, ma nessuno sente il bisogno di giustificare l’ipocrisia con cui si aiutano i libici mentre regna l’indifferenza nei confronti di altri popoli e altre repressioni: in Arabia Saudita, in Bahrein, in Siria, nello Yemen o nella stessa Palestina. E che dire dei massacri perpetrati in Africa o nello Sri Lanka. Che dire della situazione indecorosa che regna da anni in Myanmair?
E dunque, si può obiettare, che proponi? Bisogna attrezzarsi a bombardare mezzo mondo, per un’assurda par condicio, oppure ritirarsi e non fare nulla?
Su questo punto valgono innanzitutto le parole utilizzate da Gino Strada nella sua intervista al Fatto quotidiano: “A questo punto è molto difficile capire cosa si può fare. Si affrontano le questioni quando divengono insolubili. A questo punto che si può fare? Niente, trovarsi sotto le bombe. Non è possibile che si ragioni sempre in termini di ‘quanti aerei, quante truppe, quante bombe’. Invece, magari avremmo potuto smettere di fare affari con Gheddafi”. La tattica del lasciare incancrenire le situazioni per risolverle solo con l’accetta delle bombe è vecchia quanto le diplomazie militari. Se il mondo fosse governato meglio avremmo visto un isolamento di Gheddafi realizzato in tempi insospettabili; avremmo visto parlamenti e governi rifiutarsi di stipulare Trattati di amicizia con il solo scopo di fermare l’immigrazione africana (con la conseguenza di farla morire di fame e di sete nel deserto sahariano); avremmo visto una politica estera ed economica in grado di realizzare uno sviluppo concreto dei paesi più poveri senza rapinare le loro risorse; avremmo visto cooperazione e sviluppo andare di pari passo; avremmo visto governi e parlamenti scendere immediatamente al fianco delle popolazioni ribelli. Quelle rivolte hanno dato il senso e il segno di un nuovo corso che, oggi, l’intervento militare rischia di frenare. Avremmo visto un’ipotesi di intervento fondata sull’interposizione di protezione, anche se la stessa ipotesi di truppe Onu schierate a difesa delle popolazioni civili è stata sabotata negli anni dalle politiche occidentali.
Ma il no alla guerra non può essere disgiunto dal sostegno alle rivolte arabe, unica via per garantire la cacciata dei tiranni e progettare una nuova democrazia in tutta l’area. E in questo non aiuta certamente l’attitudine di una sinistra divisa tra due posizioni sbagliate: difendere l’attacco militare, anzi farsi paladina dell’oltranzismo atlantico chiedendo al governo italiano di essere più fedele di quanto la riottosità della Lega possa garantire; difendere Gheddafi in nome di un “antimperialismo” astratto per cui i nemici dei miei nemici sono comunque miei amici. Un riflesso minoritario ma che si è fatto largo e che sta condizionando la reazione di chi la guerra la ripudia. Due riflessi e due politiche che hanno impedito di essere al fianco delle rivolte arabe con tutta la determinazione necessaria. Eppure, proprio mentre si iniziano a ricordare i dieci anni dal G8 di Genova, quello che allora fu definita “la seconda superpotenza mondiale” avrebbe nuove ragioni da presentare e nuovi argomenti da far sentire.