Reuf Islamaj. A molti degli studenti che frequentano il Dipartimento di Astronomia forse questo nome non dice nulla. E non ci sarebbe da stupirsi. Perché dopo nove anni Bologna non trova ancora il coraggio di ricordare il giovane operaio albanese morto proprio durante la costruzione degli edifici dell’Università di via Ranzani.
Nel 2002 Reuf Islamaj ha 29 anni. Rientrato in Italia dopo un provvedimento di espulsione, è senza documenti. E per questo accetta tutto. Anche di lavorare in nero, senza protezioni, senza sicurezza, nel cantiere di via Ranzani, dove stanno nascendo i nuovi edifici del dipartimento di Astronomia dell’Università di Bologna. Reuf si occupa dell’impianto fognario del nuovo complesso.
Il 21 marzo crolla uno scavo non puntellato e Reuf rimane sommerso da quintali di terreno.
Partono le indagini. Si scopre che la società Irnerio Srl (partecipata dall’Università di Bologna) ha affidato la gestione delle fognature alla ditta di costruzioni Cuzzani, che a sua volta ha subappaltato i lavori a un’altra ditta, la Guerra Costruzioni. Ma la catena non finisce qui. Reuf veniva pagato dalla Lo Galbo di San Pietro in Casale, ultimo anello di una lunga successione di appalti e subappalti. Il tassello a cui spettano le colpe. Il 13 giugno del 2005 la magistratura condanna a otto mesi Carlo Giambanco, il responsabile sicurezza della Lo Galbo, e obbliga Antonino Lo Galbo, titolare della ditta, a un’ammenda di 3000 euro per l’impiego di manodopera clandestina. Il giudice inoltre stabilisce un risarcimento di 60mila euro ai genitori del ragazzo e di altri 55mila ai suoi cinque fratelli.
A questo punto la tragedia si trasforma in farsa. Un mese dopo la sentenza, il responsabile dell’azienda condannata vende l’immobile alla moglie, cambiando il regime patrimoniale ed evadendo così le responsabilità verso i creditori e, soprattutto, verso i parenti di Reuf. I genitori del giovane ottengono una prima somma di 10mila euro, e la promessa di un acconto di 30 mila euro, mai mantenuta. Nel 2009 la Lo Galbo spegne ogni residua speranza di risarcimento dichiarando il fallimento. Alla famiglia di Reuf, che abita a Valona, l’azienda deve ancora 85mila euro più i 30 mila promessi. «Dalla dichiarazione di fallimento – spiega Giuseppe Chimisso, presidente dell’associazione italo-albanese Skanderberg che ha seguito la vicenda – non abbiamo ancora avuto notizie dei soldi. Stiamo aspettando che il giudice fallimentare inserisca il risarcimento per gli Islamaj nella lista dei debiti dell’azienda».
Mentre i parenti di Reuf restano stritolati da meccanismi burocratici e giudiziari a loro incomprensibili, oggi a Bologna solo poche persone sono disponibili a rievocare la storia di un operaio morto nel cantiere di un edificio pubblico. Di Reuf rimane un foglio di carta malridotto, appeso a un muro della piazzetta teatro dell’incidente da Vito Totire, responsabile dell’associazione Chico Medes. Da anni Vito Totire si batte perché quell’ area venga bonificata e intitolata a Reuf. Un gesto simbolico, che rappresenti l’impegno dell’amministrazione a combattere il lavoro nero. Per Reuf e per tutti gli altri morti nei cantieri bolognesi. Ma il suo appello finora è caduto nel vuoto.
«Cinque anni fa – spiega Totire – abbiamo fatto richiesta alla commissione toponomastica che, dopo diversi rinvii, ha rigettato la proposta». Secondo il responsabile dell’ufficio toponomastica l’area appartiene a un non meglio precisato “privato”. E dunque il Comune non ha le facoltà di rinominare quella zona. L’Ateneo intanto ribadisce l’estraneità alla vicenda: “All’epoca dei fatti l’edificio non era ancora di proprietà della società Irnerio Srl, in quanto lo sarebbe diventato soltanto a fine lavori”. Le stesse parole arrivano anche dai dirigenti dell’Irnerio, che però si dichiarano favorevoli a dare un nuovo nome allo spiazzo: «Noi non possiamo fare niente – dichiara Valerio Cumoli – ma appoggiamo senza riserve la creazione della Piazzetta Islamaj».
Un primo segnale che, se recepito, potrebbe risvegliare la coscienza delle istituzioni.