Come sono buoni i bianchi. Gli italiani, soprattutto: caritatevoli, altruisti, generosi. Quando c’è di mezzo l’Africa, poi, capace che si atteggino ad essere più buoni finanche di un Walter Veltroni. Prendete un film come La vita facile di Lucio Pellegrini, in questi giorni nelle sale. Promosso con tanto di marchio Unicef e legato a una importante Ong come Oxfam Italia, celebra la vita dei medici italiani volontari in Kenya con tanto sincero ardore da far impallidire la bontà caramellosa del missionario africano interpretato da Carlo Verdone in Io, loro e Lara (2010), dell’ingenuo personaggio di Corso Salani in Nel continente nero (1992) di Marco Risi o del volenteroso giornalista televisivo interpretato da Fabio Fazio (non lo ricorda quasi nessuno, ma tempo fa si è fatto anche lui il suo film africano…) in Pole Pole (1996) di Massimo Martelli.
L’Africa tira fuori l’anima pelosa degli italiani. La loro/nostra congenita vocazione all’elemosina. O alla sfacciata rimozione del senso di colpa. I francesi hanno costruito intorno al mito dell’Africa film esotici e pessimisti, pieni di Legione Straniera, oasi nel deserto, ufficiali in kepi e nostalgia di Pigalle, gli inglesi hanno celebrato un robusto imperialismo vittoriano alla Kipling, tra grandi esplorazioni e retorica del coraggio, mentre gli americani – eterni bambinoni – si sono consolati con il mito di Tarzan e con il sogno primigenio della vita sauvage. Noi no. Noi abbiamo censurato i film africani che denunciavano le nefandezze delle nostre imprese coloniali in Libia (Il leone del deserto è stato sotto embargo per quasi trent’anni, dal 1981 al 2009), e ci siamo trastullati con l’imagerie selvaggia e razzista di Africa addio (1966) di Gualtiero Jacopetti o con le partite di calcio nel deserto maghrebino di Marrakech Express (1989) di Gabriele Salvatores.
La vita facile sembra ora riprendere una qualche forma di riflessione critica sulle motivazioni non sempre nobili che talora muovono certi volontari in missione africana, animati da un solidarismo di facciata che talvolta nasconde ragioni molto più meschine e inconfessabili. Come accade al medico interpretato da Stefano Accorsi in La vita facile, che alla fine del film si rivela molto diverso da quel che sembrava all’inizio. E anche l’amico che lo raggiunge in Kenya con addosso un elegante maglioncino di cachemire (Pierfrancesco Favino), non lo fa per spirito di carità ma per sottrarsi a un’inchiesta della magistratura sulla malasanità e su denari sporchi accumulati lucrando sulla pelle dei pazienti. Il problema è che tutto ciò lo si scopre solo alla fine, dopo che per tutto il film noi spettatori c’eravamo identificati con il medico buono che cura i bambini nella savana e aiuta le donne a partorire tra la polvere e le mosche. Se non altro per inerzia, anche quando capiamo le sue vere ragioni non possiamo che assolverlo. Assolvendo, con lui, anche quella parte di noi che gli assomiglia.
Il modello di Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa (1968) di Ettore Scola, chiamato in causa dal regista di La vita facile, c’entra poco. La memoria va piuttosto a un film come Finché c’è guerra c’è speranza (1974) di e con Alberto Sordi nei panni di un mercante d’armi che se ne va in giro nei paesi africani più poveri a vendere ordigni micidiali con l’irresponsabile indifferenza di un rappresentante di formaggini, ossessionato solo dalla necessità di garantire la “vita facile” alla sua famiglia e di pagare i conti-spese che figli e moglie gli fan trovare puntualmente sul comodino a ogni suo rientro a casa. Untuoso, servile e cialtrone, il Sordi di quel film è un acrobata pionieristico del marketing all’italiana: uno che intontisce i clienti, blandisce i generali, fa regalini alle signore, “compera” gli intermediari, traffica con tangenti e provvigioni.
Lì, di fronte a un italiano così orrendo, un velo di nausea e di acido disgusto impedivano tanto l’identificazione quanto l’assoluzione. Qui no. Qui, di fronte a un film come La vita facile ti identifichi con i personaggi e ti assolvi con loro. Con tanto di benedizione dell’Unicef e dell’Oxfam. Tanto che viene da rimpiangere l’Africa raccontata da Marco Ferreri nel suo bellissimo Come sono buoni i bianchi (1988). Lui la bontà non la intendeva dal punto di vista etico, ma gastronomico. Intendeva dire agli Africani, e alla loro fame, che i bianchi – gli italiani in particolare – sono molto buoni. Da mangiare, soprattutto.
*Docente e critico cinematografico
Saturno, Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2011