Cultura

Dylan Dog: un incubo di cartapesta

Riveduto e corretto in salsa Hollywood, l'eroe di Tiziano Sclavi diventa un improbabile palestrato. Per la sacrosanta delusione dei fan. Il film, infatti, non ricalca minimamente il fumetto che mensilmente produce una storia dal 1986

di Stefano Feltri
Brandon Routh nel ruolo di Dylan Dog

C’è una ragione se la Sergio Bonelli Editore non ha fatto un numero speciale, una fascetta promozionale, un gadget, un cartellone, insomma, qualsiasi cosa per cavalcare l’uscita nei cinema del film ispirato a Dylan Dog. Non è soltanto per la prudente pigrizia che sconfina nel luddismo del 78enne Sergio Bonelli. Quello che gli spettatori stanno vedendo nelle sale cinematografiche da venerdì, nel film diretto da Kevin Monroe, non è Dylan Dog. “Un film brutto e piccolo”, ha riassunto Roberto Recchioni, uno dei giovani sceneggiatori più lanciati del fumetto italiano, autore di alcune recenti storie di Dylan Dog. Il sito per fumettari comicus.it ha commentato: “L’America cannibalizza con la peggiore arroganza di cui è capace ciò che non riesce a capire fino in fondo. Forse non si tratta di malafede, ma proprio, spiace dirlo, di un abisso culturale”.

Premessa: in America Dylan Dog non è conosciuto come in Italia, dove ne esce un episodio al mese dal 1986 e dove l’indagatore dell’incubo è diventato un fenomeno di costume. Negli Stati Uniti sono uscite solo alcune raccolte in volume, nel tentativo di far cavalcare la moda dei graphic novel a un fumetto nato per essere popolare, da edicola e non da libreria.  Ma questo non basta a giustificare le scelte della produzione e del regista (che ha all’attivo giusto un film sulle Tartarughe Ninja): Dylan Dog non ha le fattezze britanniche di Rupert Everett, l’attore su cui è stato modellato (alla Bonelli tutti i personaggi sono ispirati a celebrità, per facilitare i disegnatori) ma è il palestrato Brandon Routh, attore australiano noto per un’interpretazione di Superman. La città non è Londra ma New Orleans e già questo basterebbe a far inorridire i fan.

Il problema principale del film, per i lettori del fumetto, non è neppure l’assenza di Groucho: gli eredi dei fratelli Marx non hanno dato il via libera. E così, al posto del battutista surreale e pasticcione ispirato a Groucho Marx, Dylan ha come assistente un certo Marcus (Sam Huntington). Spalla comica che diventa comunque una delle ragioni per continuare a guardare il film quando si trasforma in zombie, costretto a cibarsi di hamburger verminosi e a farsi montare un nuovo braccio (nero).

Su queste deformazioni hollywoodiane, dopo i primi venti minuti di choc, si può anche sorvolare, così come si possono tollerare i maldestri tentativi del regista di farsi perdonare: la foto di un sosia di Groucho Marx sul comodino, la strada che si chiama Craven Road, l’impacciata suonata di clarinetto di Brandon Routh, la comparsata di un vampiro ibernato che si chiama Sclavi, come Tiziano, lo scrittore che ha inventato Dylan Dog, e così via. Non è questo il guaio.

Quando Sclavi, uomo tormentato e misantropo che una volta concedeva interviste solo a Umberto Eco, ha inventato Dylan Dog voleva raccontare con il linguaggio dell’horror le angosce degli anni Ottanta, dalla droga all’apocalisse nucleare alla solitudine della “società che non esiste” all’edonismo reaganiano e pre-berlusconiano che predicava il mito del presente e il rifiuto del futuro (e quindi della morte). “Dylan Dog è un grande apologo morale. Fantasmi, draghi, streghe, morti viventi sono rappresentazioni di malesseri sociali, allegorie di un mondo senza pace”, ha scritto il fumettologo Luca Raffaelli. Nel film, invece, vampiri e lupi mannari sono quel che sono, cioè condensati di effetti speciali utili solo per il “Boo! effect”, l’apparizione improvvisa del mostro, che è l’opposto dell’orrore lento e inevitabile, dunque da affrontare solo con il palliativo dell’ironia, che interessava a Sclavi.

Il Dylan Dog sul grande schermo non è, come quello di carta, uno che sembra sempre lì per caso, trascinato – controvoglia come tutti – nell’incubo. Il personaggio interpretato da Brandon Routh è (non viene mai spiegato bene perché) una sorta di arbitro nella lotta tra mostri di varia foggia, che aveva deciso di appendere al chiodo pallottole d’argento (per i lupi) e di legno benedetto (per i vampiri) dopo che la sua fidanzata era stata dissanguata. Inciso: un Dylan Dog monogamo è l’ossimoro forse più intollerabile.

I più fumettisticamente preparati in platea hanno l’impressione che Kevin Monroe più che a Dylan si sia ispirato a un altro eroe dei fumetti nato negli anni Ottanta, anche lui inglese e più abituato a trattare con i mostri, cioè John Costantine – Hellblazer, inventato da Alan Moore, e che ha avuto un suo film con Keanu Reeves qualche anno fa. Ma anche quello era più riuscito del lavoro di Monroe. Che può comunque divertire, a condizione che lo spettatore non abbia mai avuto per le mani un fumetto di Dylan Dog.

Da Il Fatto Quotidiano del 23 marzo 2011

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