Gli insorti tengono a specificare il carattere democratico e liberale della rivoluzione ma Gheddafi dipinge il conflitto come uno scontro tribale fra est e ovest del Paese
Non è un mistero che gli insorti di Bengasi si siano sempre rappresentati come democratici in lotta contro un regime sanguinario e oppressivo. “Tra di noi ci sono avvocati, ingegneri, insegnanti, commercianti”, ci dice da Bengasi Asmi Abdul Fattah, un architetto parte del Consiglio politico transitorio della città. La fede democratica degli anti-Gheddafi emergerebbe dalle loro richieste –sistema rappresentativo parlamentare, giustizia indipendente, libertà politiche e civili – ma soprattutto dall’addio definitivo al vecchio sistema tribale, che per anni ha segnato la società libica. Su un muro del centro della città, significativamente, domina oggi una scritta enorme: “No al sistema tribale”. “La Libia delle tribù, della Cirenaica contro la Tripolitania, non esiste più – spiega al telefono da Tripoli una donna avvocato che preferisce restare anonima per ragioni di sicurezza –. Io sono di Bengasi, ma vivo a Tripoli da anni. Il Paese è cambiato, le vecchie divisioni non esistono più”.
Questa tesi è stata messa in dubbio, nei suoi strasbordanti discorsi pubblici, da Muammar Gheddafi. Per il Rais, la rivolta sarebbe uno scontro tribale tra est ed ovest del Paese che, senza la sua figura carismatica, si troverebbe a combattere “una sanguinosa guerra civile”. Oltre le minacce interessate, la natura tribale della società libica resta ancora oggi una realtà. In Libia ci sono 140 tribù, che speso portano il nome delle città e dei villaggi che occupano. Trenta tra queste hanno un ruolo dominante. Una, Warfalla, rappresenta un milione di libici, su una popolazione di sei milioni. Prima dell’avvento al potere di Gheddafi, nel 1969, la divisione per tribù e clan rendeva il Paese poco più di una pura espressione geografica, con un sovrano debole, Idriss I, tre province separate, tribù e gruppi nomadi. Nonostante i decenni trascorsi, l’identificazione tribale conserva tutta la sua forza. Le sorti di Gheddafi hanno cominciato a vacillare quando una serie di tribù importanti – Awlad Ali, Az Zawiyya, Az-Zintan, Tarhun – si sono messe contro di lui. E uno dei primi e più importanti uomini ad abbandonare il regime è stato il generale Abdul Fattah Younes, ex-ministro degli interni, membro di una tribù della Cirenaica avversa a Gheddafi.
“La dovete smettere con questa storia della Libia tribale. La Libia è una, indivisibile, e avrà Tripoli come capitale”, ci dice però da Bengasi un membro del “Democratic Libya Information Bureau”. La foga nel rigettare l’etichetta tribale è comprensibile. Se vogliono mostrare al mondo una faccia democratica, e ottenerne l’appoggio, i ribelli devono consegnare al passato la storia brutale e bellicosa dei clan. A favore del superamento di questa storia, ci sono gli ultimi 32 anni. Sotto il governo tirannico e sanguinario di Gheddafi, la Libia è comunque andata avanti. I proventi del petrolio hanno diffuso ricchezza. Il Paese si è dotato di scuole, ospedali. L’85% della popolazione vive oggi attorno ai due maggiori centri urbani, Tripoli e Bengasi. 12 mila giovani libici studiano all’estero. Le vecchie tribù si sono mescolate. Centinaia di membri delle tribù dell’Ovest, soprattutto Warfalla e Tarhun, da sempre cuore del potere di Gheddafi, vivono ora a Bengasi, e hanno da subito preso le armi contro il tiranno.
Questa faccia moderna, post-tribale, della Libia e degli insorti, non è però così lineare. I ribelli hanno spesso usato, in queste settimane, le stesse armi della propaganda, e della deformazione della realtà, del regime. Ai prigionieri è stata riservata una sorte brutale. Nel peggiore dei casi uccisi alla cattura; nel migliore, mostrati come trofei ai giornalisti. E il vecchio riflesso tribale e bellicoso si è rivelato anche nella velocità con cui le richieste politiche e non-violente dell’opposizione si sono trasformate in scontro armato (una dinamica molto diversa da quella della rivolta egiziana. Qui, nel giorno degli scontri a Midan Tahrir, due giovani anti. Mubarak dicevano di sentirsi sconfitti per il solo fatto di aver lanciato sassi contro la folla pro-regime che li attaccava).
“Difficile prevedere l’evoluzione del governo libico, mentre infuria la battaglia”, spiega Paul Sullivan, esperto di Libia di Georgetown University. Come a dire che il suono delle bombe – di Gheddafi, degli alleati, degli insorti – copre ancora la risposta alla domanda. Rivolta democratica, o guerra civile di clan?