Ill.mo Presidente,
è con animo dolente e preoccupato che scrivo questa lettera aperta. Non nutro alcuna speranza che essa possa giungere sino a Lei, ma forse arriverà ad orecchie del Suo staff, forse troverà, oh quanto mi illudo, animi appena sensibili verso qualche motivo della stessa. Ad ogni modo, serve a me stesso sconcertato, come milioni di italiani, dalle vicende del nostro Paese. Presidente, assisto sgomento a ripetuti strappi e violazioni della nostra Carta costituzionale e a nulla valgono gli appelli, da Lei lanciati con fervore e passione, all’unità di popolo, alla concordia, alla difesa dei valori, ancor più nell’infuocata temperie che stiamo attraversando, se concretamente non si arresta la deriva in corso.
Tanto è che il susseguirsi sfrenato e veloce delle devastazioni le fa pure presto dimenticare, e così non voglio tediarLa sulle riforme Gelmini, relative a scuola e università, sui guasti che stanno producendo – ma forse i rumori sordi del nostro una volta forte sistema di formazione che tracolla non arrivano in cima ai Colli o si odono comunque assai flebili nella rarefatta atmosfera del Palazzo. Eppure, Presidente, tra qualche mese appena gli effetti di quella riforma esiziale purtroppo promulgata e poi additata come segnata da forti criticità, si avvertiranno in tutta la loro durezza.
No, per una volta, non di scuola né di università, intendo parlare, né di Giustizia, per carità!, ma della Costituzione. Lei certamente non ha bisogno di un piccolo giurista come colui che Le sta scrivendo, per ricordare che la Costituzione o si prende in blocco o non la si prende. Non intendo essere petulante, mi perdoni Presidente, ma la guerra è guerra. E poiché è una cosa abominevole e facile da comprendere è fastidioso discettare quando un atto è ascrivibile a guerra o no. Bombardare porti è guerra; bombardare città e infrastrutture è guerra; abbattere aerei stranieri è atto di guerra. Quando altre nazioni attaccano un altro Stato e quando muoiono civili e militari è guerra. I miei figli dinanzi alle immagini dei Tg esclamano: “Papà, la guerra!”, invece Lei e il Presidente del Consiglio dei ministri affermate, con piglio che non ammette repliche, che così non è. Avrete, Voi, alte cariche dello Stato, eccellenti ragioni per sostenere che l’Italia non stia partecipando a una guerra, vogliate però spiegarle senza far perdere il senso comune ai cittadini. Perché le ipocrite formule come “no-fly zone” o altre del passato come “intervento di polizia internazionale” sono state, sono e saranno per il futuro comodissimi alibi per superare gli argini costituzionali posti dai nostri padri costituenti.
E le ragioni umanitarie, che sovente ricorrono e giustamente si invocano, non possono valere di volta in volta, secondo valutazioni interessate di questa o di quella potenza dell’opulento Occidente e per questo o quel lembo del mondo e non per altri.
E passando ai tormentati affari interni, Lei, Presidente, non è affatto tenuto a innovare su un terreno così delicato come la nomina dei ministri introducendo la cosiddetta “riserva”. Nulla la obbligava a dar corso alla nomina del ministro Saverio Romano, indagato per reati assai gravi. La proposta dei ministri o si accetta o si respinge, da oggi invece esiste la figura del “ministro nominato con riserva”.
È vero, non vi è nessun provvedimento dell’autorità giurisdizionale e pertanto non esiste alcun impedimento giuridico-formale alla nomina; ma, Presidente, non mi consideri per questo un presuntuoso, non esistono soltanto gli impedimenti giuridico-formali: nel compimento di determinati atti concorrono anche, e in taluni casi soprattutto prevalgono, valutazioni di opportunità. Quale interesse superiore ha dunque condotto alla nomina a ministro di Saverio Romano, prima che risolvesse, ci auguriamo positivamente, i suoi problemi giudiziari? Se anche Lei assume come bussola o discrimine il formalismo, non occorrerà più in futuro un organo di garanzia che vigili, intervenga, orienti, perché tutto sarebbe rimesso ad automatismi.
Oggi il profondo e vasto inquinamento della politica e delle istituzioni sta allontanando sempre di più i cittadini dalla partecipazione alla vita democratica, perché si fa largo l’idea della violazione costante, sistematica di un altro principio, quello sancito dall’art. 54: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. E tutti abbiamo il dovere di restituire dignità alla politica e alle istituzioni.
Presidente, in Italia, oggi, si è persino smarrito il significato delle parole: la democrazia si esporta, mentre ci hanno insegnato e ci insegnano che sono le merci ad essere esportate; i militari, con armi in pugno, che sparano, uccidono, bombardano, sono denominati pacificatori; chiamano modernità la barbarie del precariato che brucia il futuro di intere generazioni di giovani; vorrebbero insegnarci la vera giustizia ma in realtà si tratta dell’impunità per corrotti e mafiosi.
A volte, mi sembra davvero di esser precipitato dentro le pagine di 1984 di George Orwell, e trovarmi dinanzi al famigerato Ministero della Verità a leggere i suoi tre slogan:
La guerra è pace
La libertà è schiavitù
L’ignoranza è forza
“La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, lo lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Sono parole semplici, ma vibranti, sono di Piero Calamandrei. Milioni di italiani seguono questo insegnamento, ma da soli non ce la fanno. Non ce la facciamo, Presidente.
Presidente Napolitano, ci rassicuri, ci conforti, ci dica che siamo ancora cittadini della Repubblica Italiana, quella democratica, nata nel 1948 dalla liberazione dal nazifascismo. Dica qualcosa Presidente… o prima o poi, e non si stupisca di ciò, ci verrà in mente di chiederci: Presidente, sì, ma di quale Repubblica?
Con ossequio
Un cittadino sgomento