“Tutte le centrali che non supereranno gli stress test verranno chiuse”, parola di Nicolas Sarkozy che è intervenuto sulla decisione europea di sottoporre gli impianti del Vecchio continente a delle prove di resistenza dopo la tragedia giapponese di due settimane fa. Le dichiarazioni del presidente francese suonano in antitesi con quanto detto da André-Claude Lacoste, direttore dell’Autorità per la Sicurezza Nucleare di Parigi: “Non c’è ragione per chiudere alcuna centrale nucleare in Francia”. E soprattutto dimostrano quanto sia vivo, anche sotto la Tour Eiffel, il dibattito sull’energia prodotta dall’atomo.
Martedì, due governi regionali svizzeri si erano rivolti a Parigi invocando la chiusura dell’impianto di, un vero e proprio pezzo di storia dell’epopea atomica d’Oltralpe (con i suoi 41 anni di vita è la più longeva centrale del Paese), collocato, dettaglio non da poco, ad appena 35 chilometri da Basilea. Ma le perplessità dei vicini non hanno fatto breccia nell’animo di Lacoste che, nel corso della riunione con i suoi omologhi europei svoltasi a Helsinki il giorno seguente, ha chiuso ogni spiraglio di dialogo. “Ho la sensazione che gli impianti francesi siano sicuri – ha affermato – . Se così non fosse li chiuderemmo”. Più chiaro di così…
Eppure la questione non sembra affatto chiusa. Per lo meno nel lungo periodo. Già, perché dopo decenni di ortodossia atomica, anche l’incrollabile fede dei francesi nelle potenzialità dell’atomo potrebbe essere sul punto di vacillare. L’impatto emozionale della vicenda nipponica starebbe infatti animando un dibattito mai visto inducendo parte della classe politica ad un improvviso ripensamento. “C’è un prima e un dopo Fukushima – ha dichiarato al Financial Times Charlotte Mijeon, attivista del movimento Sortir du Nucléaire – . L’opinione dei francesi è cambiata radicalmente”. Un pensiero condiviso dal partito socialista che la scorsa settimana ha ipotizzato apertamente un piano di abbandono dell’energia atomica nell’arco dei prossimi due o tre decenni.
In Francia sono attivi 58 reattori nucleari, praticamente uno per ogni milione e poco più di abitanti. In termini relativi si tratta del Paese più “nuclearizzato” del mondo, una nazione assuefatta al rischio in cui la stragrande maggioranza dei cittadini è ormai abituata a vivere a non più di 300 chilometri di distanza dal reattore più vicino. I vantaggi, ovviamente, non mancano: le centrali forniscono il 78% dell’elettricità consumata nel Paese e i prezzi delle risorse energetiche si mantengono significativamente più bassi rispetto alle altre nazioni (in Germania si paga in media il 40% in più). Ma gli aspetti critici sono altrettanto evidenti.
Secondo un rapporto diffuso da Sortir du Nucléaire, la massiccia diffusione delle centrali non avrebbe ancora permesso al Paese di affrancarsi in modo apprezzabile dalle fonti fossili che, affermano gli attivisti, compensano ancora i tre quarti del consumo energetico francese. Ne sono consapevoli i movimenti di opposizione all’atomo che la scorsa settimana sono scesi in piazza a Parigi e Nantes per dire basta alla soluzione atomica. Un obiettivo, nota il Financial Times, che si scontra con una pluralità di interessi consolidati. Si stima che il comparto nucleare francese impieghi qualcosa come 200 mila lavoratori con un giro d’affari che potrebbe raggiungere i 28 miliardi di euro all’anno.
Sarà stato questo, forse, a spingere il ministro dell’energia di Parigi, Éric Besson, ad esprimere pochi giorni fa la sua “profonda convinzione sul fatto che l’energia nucleare continuerà ad essere per l’Europa e il mondo una delle principali risorse del XXI secolo”. Parole, pronunciate a davanti ai suoi omologhi europei riuniti a Bruxelles, che stonano con i dati degli ambientalisti. Il comparto atomico, ricordano ancora da Sortir du Nucléaire, compensa appena il 2,5% dei consumi energetici globali. Se il numero dei reattori triplicasse da qui al 2030, la riduzione delle emissioni gassose su scala globale diminuirebbe appena del 9%. Dieci anni più tardi le riserve di uranio potrebbero essere esaurite.