Cronaca

Mafia e Lombardia, le radici del tabù

La lite Vendola-Formigoni è solo il caso più recente ma non sarà l'ultimo: parlare di criminalità organizzata al Nord è sempre stato considerato proibito. Eppure già negli anni 70 le cosche avevano trasferito parte dei loro interessi nella capitale morale d'Italia

Lombardia, mafiosa e omertosa. Tre parole che ribaltano decenni di senso comune e mostrano un’Italia capovolta. Soprattutto se a dirle è il presidente di una regione del Sud, Nichi Vendola, al presidente di una regione del Nord, Roberto Formigoni. La reazione di quest’ultimo è stata scomposta: Vendola è «sotto effetto di sostanze», e poi «come mai non è in galera» per lo scandalo della sanità pugliese? (vedi http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/03/25/vendola-formigoni-il-primo-lombardia-regione-ultramafiosa-laltro-e-un-miserabile/99994/).

Il sindaco di Milano Letizia Moratti ha ribattuto con lo stile che predilige, quello delle formule generiche e vacue: «Vendola deve occuparsi della sua regione, viene in un posto che non conosce e insulta una regione che è la prima d’Italia nel contribuire a creare per tutto il Paese opportunità di lavoro e produzione di ricchezza». E naturalmente «tutte le istituzioni, che ringrazio di cuore, sono estremamente vigili» (http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/politica/2011/26-marzo-2011/continua-disputa-vendola-formigonila-mafia-ha-attaccato-nostro-lavoro–190312103014.shtml).

Passata la buriana, però, sia Moratti che Formigoni hanno optato per un mezzo passo indietro ed entrambi hanno rilasciato qualche timida ammissione a mezzo stampa (lettera e intervista sul Corriere della Sera di oggi). Il messaggio grosso modo è lo stesso, per dirla con le parole di Formigoni: “Basta liti, combattiamo insieme la mafia”. Che quindi c’è anche a Milano, se ne ricava. Più timida Moratti, che dopo la polemica con Vendola decide di rispondere alla lettera del procuratore Pignatone, pubblicata sempre dal Corriere un paio di giorni prima. Il procuratore di Reggio Calabria, magistrato di punta nella lotta alla ‘ndrangheta, aveva scritto una lettera al Corrierone per scuotere il Nord dal suo preoccupante torpore: «La repressione non basta. È necessaria la reazione della società civile, con tutte le sue articolazioni, ognuna delle quali può svolgere un ruolo prezioso, innanzi tutto agendo secondo le regole e contrastando il silenzio e l’omertà».

Ecco allora che sotto il titolo “Guardia alta contro la ‘ndrangheta” sfila la lista degli interventi adottati dal Comune, ma soprattutto un invito al governatore della Puglia: “Deve e può essere (quella contro la criminalità, ndr) una battaglia senza barriere ideologiche e ostracismi politici, perché sono sicura che tutti […] vogliamo mantenere Milano fedele alla più autentica tradizione di e vocazione di lavoro e solidarietà, capacità di iniziativa e onestà […]. Per questo chiedo a chi lancia accuse pretestuose e infamanti contro la Lombardia solo per ragioni elettorali di fare un passo indietro”.

Certo che Vendola è in campagna elettorale per il suo candidato Giuliano Pisapia, che sfiderà la Moratti alle amministrative di maggio, ma due comparsate sui mezzi di informazione non bastano ad annullare il punto centrale della sua invettiva: in Lombardia la parola mafia è sempre stata un tabù, soprattutto per i governanti. Come a Corleone, ma Corleone degli anni Cinquanta, non quella di adesso che di mafia discute pubblicamente.

E’ un vero e proprio negazionismo che ha radici lontane. La mafia era una «favola» per il sindaco socialista Paolo Pillitteri, che poi si vedrà scoppiare tra le mani lo scandalo Duomo Connection e gli intrecci pericolosi tra Cosa nostra e Palazzo Marino.

Vent’anni dopo Letizia Moratti negherà l’esistenza di una «criminalità mafiosa» a Milano, vedendo al massimo una generica (tanto per cambiare) «criminalità organizzata». Era il 23 gennaio 2010, sette mesi dopo l’operazione Crimine-Infinto porta in carcere 160 presunti affiliati alla ‘ndrangheta milanese e lombarda. Quei criminali «organizzati» di cui parla la Moratti, guarda un po’, risultano strettamente legati alle cosche calabresi e spesso portano i cognomi di famiglie di rispetto.

E che dire dello strano caso del prefetto Gian Valerio Lombardi, che durante la visita della Commissione parlamentare antimafia fa filtrare il messaggio che a Milano «la mafia non esiste», ma nello stesso istante consegna ai commissari un’allarmante relazione riservata in cui sottolinea la penetrazione dei clan nell’economia legale «grazie a consolidati rapporti con il mondo bancario, finanziario e istituzionale»? E’ lo stesso prefetto che affossa l’istituzione di una Commissione antimafia al Comune di Milano, con l’entusiastica adesione del centrodestra tutto – Pdl, Lega, Udc, Lista Moratti – che pure ne aveva votato l’istituzione all’unanimità. Tabù.

La mafia a Milano e in Lombardia c’è, e c’è da almeno sessant’anni, dato che i primi boss di Cosa nostra e ‘ndrangheta salirono al Nord all’epoca in cui nascevano la Rai Tv e il festival di Sanremo. Luciano Liggio è stato arrestato nel 1974 in via Ripamonti, dove viveva con la compagna e il figlio. Michele Sindona e Roberto Calvi erano perfettamente inseriti nel «salotto buono» dell’economia e della finanza, prima di finire male, mentre al funerale di Giorgio Ambrosoli non si presentarono né autorità né «vip». I colletti bianchi del narcotraffico legati allo «stalliere» di Arcore Vittorio Mangano avevano uffici di copertura in via Larga, a due passi dal Duomo.

Nei primi anni Novanta la Direzione distrettuale antimafia di Milano portò in carcere circa duemila boss e soldati della ’ndrangheta, di Cosa nostra, della camorra, della Sacra corona unita, tutti stabilmente insediati al Nord.

Formigoni e la Moratti forse non hanno studiato la storia. Ma, come accusa Vendola, sono stati muti anche di fronte alla cronaca. Protagonisti di una politica dove si dichiara e si polemizza su tutto, fino allo sfinimento, si sono tenuti lontani il più possibile dalla parola tabù.

Ecco un elenco – inevitabilmente parziale e sparso – delle occasioni in cui avrebbero dovuto dire qualcosa di più o di diverso.

Alla vigilia del Natale 2010, Pietrogino Pezzano è stato nominato direttore generale della Asl numero uno della provincia di Milano, pochi mesi dopo che erano emerse le sue strette frequentazioni con i presunti boss della ‘ndrangheta di Desio. Nomina avvallata e difesa dallo stesso Formigoni.

Proprio a Desio, il 26 novembre 2010, si registra il primo caso lombardo di una giunta comunale caduta per mafia. Dopo mesi di agonia, la maggioranza Pdl-Lega non ha retto ai contraccolpi dell’inchiesta Crimine-Infinito e delle pesanti collusioni politico-amministrative che ha fatto emergere.

Il 13 luglio 2010, l’inchiesta Crimine-Infinito svela diversi contatti tra ‘ndrangheta e politica. Il direttore della Asl di Pavia, Carlo Chiriaco, finisce in carcere per associazione mafiosa. Dall’inchiesta emerge tra l’altro che si dà da fare per fabbricare prove false in favore di Rosanna Gariboldi, moglie del parlamentare del Pdl Giancarlo Abelli, vicinissimo a Formigoni.

L’assessore regionale all’ambiente Massimo Ponzoni, altro fedelissimo di Formigoni, pur non indagato è definito dagli inquirenti «parte del capitale sociale» dell’organizzazione mafiosa.

Giulio Giuseppe Lampada, imprenditore legato al clan Valle sotto accusa per associazione mafiosa e usura, era ospite alla festa elettorale di Letizia Moratti per la vittoria del 2006, grazie ai buoni uffici di un paio di consiglieri comunali del Pdl.

La recente operazione Caposaldo svela un capillare sistema di estorsioni gestito, secondo l’accusa, dallo storico clan ‘ndranghetistico dei Flachi. A Milano pagano il pizzo famosi locali notturni, parcheggiatori abusivi, venditori ambulanti di panini. In perfetta sinergia con lo spaccio di coca. Paolo Martino, boss reggino di prima grandezza, parla di appalti in tono assai confidenziale con Luca Giuliante, tesoriere del Pdl e primo avvocato di Ruby nello scandalo dei festini di Arcore.

Intorno all’aeroporto di Malpensa, a Lonate Pozzolo e in altri centri del varesotto, decine di imprenditori lombardi hanno subito per anni estorsioni, violenze e minacce da parte del clan di origine crotonese dei Filippelli, secondo un’indagine condotta dalla direzione distrettuale antimafia di Milano. Nessuno di loro ha mai trovato il coraggio di denunciare. Il relativo processo sta per concludersi a Busto Arsizio.

L’11 giugno 2010 diversi esponenti del clan Barbaro-Papalia sono stati condannati in primo grado per associazione mafiosa, con l’accusa di aver conquistato, con il timore che il loro nome incuteva, il monopolio di un’attività economica lecita: il movimento terra nei cantieri edili dell’hinterland sudovest di Milano. Gran parte dei testimoni convocati in aula hanno fatto scena muta o sono stati reticenti.

Indagini successive hanno evocato l’esistenza di un sistema centralizzato grazie al quale la ’ndrangheta si spartisce le commesse in varie parti della Lombardia, capoluogo compreso. E scarica abusivamente rifiuti tossici e pericolosi.

Da almeno vent’anni si susseguono operazioni antimafia all’Ortomercato di Milano, struttura di proprietà comunale attraverso la Sogemi. L’ultima, del 2007, ha smascherato un traffico internazionale di cocaina gestito dal clan Morabito di Africo, con tanto di night club aperto in un locale della Sogemi.

Negli ultimi anni in Lombardia ci sono stati una quindicina di omicidi di mafia e si registrano centinaia di casi di minacce e intimidazioni, soprattutto ai danni di imprenditori e commercianti, che raramente vengono denunciati. La sola indagine Crimine-Infinito riporta 130 incendi dolosi e 70 episodi di intimidazione in quattro anni.

Nei giorni scorsi in un campo Bernate Ticino, tra Milano e Novara, è stato scoperto un «cimitero della ‘ndrangheta», con due corpi di presunte vittime di lupara bianca, sotterrati insieme a resti di maiali macellati clandestinamente.

La Lombardia è la quarta regione italiana per beni immobili confiscati alle mafie: 762, di cui 173 a Milano città. Le aziende tolte ai clan sono 195.

Non è seguito dibattito.