Da 13 giorni la Siria è in preda a una contestazione anti-governativa senza precedenti. Per cercare di arginare la protesta le autorità siriane hanno preso due importanti decisioni. Innanzitutto abrogare la legislazione di emergenza in vigore nel Paese dal 1963: ”Le decisione di abrogare le leggi di emergenza è già stata presa, ma non so quando sarà messa in applicazione”, ha detto Buthayna Shaaban, consigliere del presidente Bashar al-Assad. Tale legislazione, entrata in vigore subito dopo la presa di potere da parte del partito Baath nel marzo 1963, impone restrizioni alla libertà di riunirsi e di spostarsi e consente l’arresto di “sospetti o di persone che minacciano la sicurezza”. Queste leggi permettono inoltre di interrogare, sorvegliare le comunicazioni ed effettuare controlli preliminari su quanto pubblicano i giornali e diffondono le radio e ogni altro mezzo di informazione. Entro una settimana, poi, sarà modificato l’articolo 8 della Costituzione, che di fatto definisce il Baath il partito unico.
In secondo luogo, sempre nell’ottica di placare le rivolte, le autorità siriane hanno rilasciato 16 attivisti, tra cui anche Diana Jawabra, il cui arresto aveva contribuito a innescare le rivolte. La tv panaraba al Arabiya riferisce del rilascio della giovane donna, citando il suo avvocato, che precisa che insieme alla sua cliente sono state rimesse in libertà altre 15 persone, finite in carcere lo scorso 16 marzo durante il sit in convocato nel cuore della capitale siriana per chiedere la liberazione dei prigionieri politici e dei 15 bambini di Daraa, arrestati alla fine di febbraio. Diana Jawabira è membro di un influente clan di Daraa e il suo arresto aveva contribuito a scatenare l’ira dei residenti del capoluogo meridionale. Delle 37 persone arrestate il 16 marzo a Damasco, ne rimangono dietro le sbarre una dozzina, tra cui l’attivista Suhayr al Atassi, leader della campagna per la liberazione dei detenuti politici, dopo che altre sei attiviste siriane erano state già liberate lo scorso mercoledì.
Fonti governative citate sempre da Al Arabiya riferiscono di probabili “dimissioni” del governo siriano nella giornata di martedì 29 marzo e della possibilità che “a breve” se ne formi un altro “incaricato di servire meglio gli interessi dei cittadini”. L’attuale governo siriano è guidatodal premier Muhammmad al Utri, zio della first lady Assma al Assad. Formato nel settembre 2003, il governo al Utri è stato rimaneggiato sette volte nel corso degli ultimi sette anni. Dall’avvento del partito Baath quasi mezzo secolo fa, le decisioni dell’esecutivo non hanno mai riguardato questioni cruciali per le sorti del Paese, affidate invece alla presidenza della repubblica e alla direzione dello stesso Baath. L’ultimo rimpasto risale all’ottobre scorso, con la nomina dei due nuovi responsabili del ministero della cultura e quello dell’irrigazione. La composizione dell’esecutivo era già cambiata nell’ottobre 2004, nel febbraio 2006, nel dicembre 2007, nel luglio e nel settembre 2008 e nell’aprile 2009.
Dal punto di vista strategico, il regime siriano ha dispiegato le truppe nella città di Latakia, teatro delle violente proteste degli ultimi giorni durante le quali sono state date alle fiamme sedi del partito Baath al potere e cecchini hanno sparato dai tetti contro i manifestanti. Secondo fonti governative citate dai media di Stato i morti ieri a Latakia sono stati 12. L’intervento dei soldati, giunti a bordo di convogli di camion, ha messo per il momento fine alle manifestazioni in questa città 350 chilometri a nord est da Damasco.
Ma su internet gli attivisti siriani per la democrazia chiamano allo sciopero generale in tutta la Siria. L’appello giunge dopo che ieri l’opposizione ha denunciato la morte di sette manifestanti a Latakia, che sarebbero stati uccisi da cecchini appostati sui tetti. Secondo l’opposizione i morti in città sono almeno 20 da quando è iniziata venerdì la protesta. Il governo nega che a sparare siano state forze di sicurezza e parla di “gruppi armati” che hanno attaccato stazioni di polizia e rubato le armi, obbligando la polizia a reagire. Migliaia di manifestanti hanno protestato ieri anche a Daraa, dove secondo Amnesty International in una settimana di proteste sono state uccise 55 persone dalle forze di sicurezza.
Bahrein. Il principale partito dell’opposizione sciita in Bahrein, Wefaq, ha accettato l’offerta del Kuwait per mediare con il governo e porre fine così alla crisi politica che attanaglia il piccolo regno. Secondo quanto riferito alla Reuters dal professor Jasim Husain, l’emiro del Kuwait, Sheikh Sabah al-Ahmad al-Sabah, si è offerto di mediare fra la famiglia sunnita degli al-Khalifa, al potere in Bahrein, e i gruppi di opposizione sciita. “Accettiamo l’idea di portare un elemento da fuori”, ha detto Husain sottolineando che il Wefaq non ha posto condizioni nelle trattative di mediazione anche se la presenza di truppe straniere sarà un argomento spinoso nelle discussioni. Il partito e gli altri sei gruppi alleati hanno detto la scorsa settimana che non avrebbero intavolato trattative avanzate dal principe ereditario a meno che il governo non avesse ritirato le truppe dalle strade e liberato i prigionieri.
Yemen. Battuta d’arresto per i negoziati per il passaggio di potere nello Yemen. Lo ha reso noto uno dei consiglieri dei del generale Ali Mohsen sottolineando che al momento non è stata fissata la data per la ripresa a breve delle trattative. Il presidente Ali Abdullah Saleh, al potere dal 1978, non ha fatto cenno finora alla richiesta del principale partito di maggioranza per la formazione di un nuovo governo incaricato di redigere una nuova costituzione. “Membri del comitato centrale del Congresso del Popolo sottolineano l’impellente necessità di formare un governo che abbia il compito di redigere una nuova costituzione sulla base del sistema parlamentare”, è scritto sul sito del ministero della Difesa di Sanaa. Il tutto mentre a sud sospetti membri di al Qaeda nella Penisola arabica hanno strappato alle forze armate il controllo di Jaar, nella provincia meridionale di Abyan, roccaforte integralista, secondo quanto riferito da una fonte dei servizi di sicurezza.
Gli Stati Uniti. Secondo il segretario della Difesa Usa, Robert Gates, quanto sta avvenendo in Medio Oriente sul piano politico è un “cambiamento straordinario” paragonabile soltanto ai cambiamenti seguiti alle indipendenze negli anni Cinquanta, se non addirittura alla caduta dell’impero Ottomano di un secolo fa. Intervistato da tv americane nell’ambito di trasmissioni domenicali, Gates oltre che a parlare delle operazioni in Libia si è brevemente soffermato sulla situazione in Siria, Egitto, Yemen, Tunisia, Bahrein. “Siamo talmente concentrati su ciascuno di questi Paesi che abbia perso di vista la storia straordinaria in atto in Medio Oriente – ha commentato il segretario. Gli stessi cambiamenti nell’Europa dell’Est seguiti alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 non hanno avuto uno sviluppo così rapido, “ma si sono sviluppati nell’arco di quasi un anno, da febbraio a dicembre” ha detto Gates. Per il segretario della Difesa Usa, che è stato intervistato insieme al segretario di Stato americano, Hillary Clinton, quanto sta avvenendo in Medio Oriente rappresenta “una sfida straordinaria” per gli Stati Uniti e il resto del mondo. L’intera comunità internazionale è chiamata a rispondere alla stessa domanda: “Come reagire?”. Quanto a un possibile intervento armato in altri Paesi in rivolta oltre la Libia, il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha dichiarato all’emittente Cbs che “non ci si deve aspettare adesso che gli Stati Uniti saranno coinvolti in Siria nella stessa misura in cui lo sono in Libia”.