“E’ il 1976. Il cielo è basso e pieno di nubi. Le nubi grigie sono bitorzolute, increspate e lucenti. Il cielo ha un aspetto cerebrale”.
Comincia così Piccoli animali senza espressione, un racconto di David Foster Wallace presente in un’antologia edita in Italia da Minimum fax col titolo La ragazza dai capelli strani. Per quanto riguarda l’ultima frase, né nell’edizione italiana, né nel testo originale (“The sky looks cerebral”), la parola “cerebrale” è resa in corsivo. In questo caso il corsivo l’ho aggiunto io.
Non ci si dovrebbe innamorare di uno scrittore per via di un aggettivo. Si pretende, o quantomeno si spera, che ci sia qualcosa di più profondo nel legame che si stabilisce fra un lettore e un determinato testo. Ma nel mio caso le cose sono andate proprio così.
David Foster Wallace, morto suicida il 12 settembre del 2008, ha lasciato una diffusa schiera di epigoni in tutto il mondo. Eppure, posso immaginarlo con ragionevole certezza, nessuno fra questi sarebbe capace di definire un cielo “basso e pieno di nubi” usando un aggettivo come “cerebral”. I tristi epigoni provano ogni giorno a creare corto circuiti linguistici basati sull’accostamento alienante di sostantivi e aggettivi, ma per quanto le lingue di cui si è dotata la specie umana siano ricche e variegate, 999 volte su 1000 l’effetto che si ottiene è parodistico. L’assoluta grandezza di uno scrittore si vede anche da queste cose.
Eppure, giuro, non c’è niente di più lontano da me della letteratura post-moderna, o da quel genere letterario che il critico James Wood, in un saggio su Denti bianchi di Zadie Smith, definì “realismo isterico”, annoverando, oltre al nostro, autori come Don DeLillo, Thomas Pynchon, Dave Eggers, Jonathan Franzen. Proprio quest’ultimo, una settimana fa, all’Auditorium di Roma, quando gli è stato chiesto del suo amico Foster Wallace, ha detto: “Userò due parole: sono triste. Se dovessi usare più di due parole direi: mi ci sono incavolato”.
Allora diciamo che, prima di precipitare sotto il famoso “cielo cerebrale”, per molti anni mi sono tenuto debitamente alla larga da Foster Wallace, e l’ho fatto in una maniera molto stupida, e cioè come un bambino ostinato che detesta tutto ciò che, in un modo o nell’altro, piace alla cricca più detestabile e odiosa della scuola.
Ma veniamo al punto. Perché tutta questa tirata anticonvenzionale su un autore tra i più importanti degli ultimi vent’anni e di cui tuttora si parla e si scrive in doviziosa quantità? Semplice. Perché quest’anno uscirà The Pale King (in italiano Il Re pallido), la più grande incompiuta, forse (prima di massacrarmi rileggete dieci volte il “forse”), dai tempi di America di Kafka.
Poco da dire sul fatto che si tratterà del libro dell’anno (in Italia lo pubblicherà Einaudi). La stesura del romanzo ebbe inizio nel 2000 e lo stesso Wallace, quand’era ancora in vita, parlandone col suo amico Franzen, disse che si trattava di un librone di circa cinquemila pagine da ridurre poi a un migliaio. Un romanzo che parla di mille cose, ma che affronta soprattutto i temi della noia e dell’angoscia esistenziale.
Che si tratti della stessa noia e della stessa angoscia che l’hanno portato ad impiccarsi due anni e mezzo fa nella sua casa di Claremont in California è cosa fin troppo facile a dirsi. Perciò, per ridare un minimo di equilibrio alle cose, voglio concludere prendendo in prestito la chiusura di uno dei capitoli di John Billy, un altro dei racconti di Wallace. È una frase che, a guardare il tutto a ritroso, suona come un epitaffio perfetto per il genio di Ithaca. Fa così:
“M’avreste dovuto vedere, quanto combattevo”.