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In piazza per un nuovo Mediterraneo

L’Unione europea, e i suoi Paesi più interessati all’area mediterranea, come soprattutto la Francia, ma anche Spagna e Italia, hanno delegato fino a poco tempo fa il controllo del Nordafrica a una serie di dittatori, diversi fra loro ma accomunati dalla repressione nei confronti delle rispettive popolazioni e dal controllo autoritario sulle loro società civili. Un altro aspetto non secondario dell’utilità di questi regimi antidemocratici dal punto di vista dei governanti europei è stato il controllo dei flussi migratori. Sarkozy, Berlusconi e Zapatero hanno chiuso gli occhi di fronte alla violazione dei diritti umani, alla tortura e ai sistemi polizieschi, per lunghe decine di anni.

Ne è derivato fra l’altro il fallimento di ogni progetto di dialogo euro-mediterraneo. Rispetto a questo ha anche giocato la subalternità dell’Europa agli Stati Uniti e ad Israele sulla questione palestinese, con l’accettazione dei massacri a Gaza e della prosecuzione delle politiche di insediamento dei coloni in Cisgiordania. Le rivoluzioni arabe, che si sono sviluppate anche contro le politiche dei Paesi dell’Unione europea, forniscono oggi un’occasione per voltare pagina.

Con l’intervento armato in Libia, Sarkozy e Cameron, ma anche Berlusconi, tentano disperatamente di tornare nel gioco. Come prevedibile, e come ho denunciato fin dall’inizio su questo blog, stanno ora violando anche la discutibile risoluzione n. 1973. Lungi dal limitarsi ad offrire la protezione ai civili, stanno condizionando pesantemente gli esiti della guerra civile in corso. Si dimostra anche che lo scontro armato, dove contano le tecnologie militari e chi è in grado di fornirle, non costituisce affatto un terreno favorevole alle giuste aspirazioni dei popoli all’autodeterminazione.

La guerra in corso va fermata, e non solo perché causa numerosi morti fra la popolazione civile e da questo punto di vista le bombe delle coalizione non fanno meno male dei tanks di Gheddafi; la guerra in corso va fermata al più presto perché strategicamente determina il rafforzamento dell’opzione militare (si vedano le dichiarazioni di Putin sulla necessità di rilanciare il riarmo russo) e può aprire la strada ad avventure neocoloniali.

Occorre augurarsi che i ribelli di Bengasi tengano ferma la loro scelta di contrarietà all’intervento di terra e non svendano le risorse petrolifere alle potenze europee. Bisogna anche mobilitarsi per l’apertura immediata di negoziati che vedano come risultato l’autodeterminazione del popolo libico e il mantenimento dell’unità nazionale del Paese nordafricano. La recente dichiarazione delle tribù della montagna del Jebel-Nefusa costituisce un passo importante in questa direzione. In tali negoziati dovrebbe avere un ruolo importante l’Unione africana, finora esclusa dalle trattative.

Sabato 2 aprile l’Italia della pace scenderà in piazza per dire che non vuole la guerra e che vanno invece costruite nuove relazioni, autenticamente democratiche e dal basso, con le rivoluzioni arabe. Questo è l’unico dialogo euro-mediterraneo possibile. Perché vada avanti sarà necessario sbarazzarsi anche degli attuali governi della sponda Nord e sostituirli con altri che siano all’altezza della nuova situazione che si sta determinando.