Dunque le intercettazioni, si badi bene le intercettazioni carpite dalle microspie della polizia all’insaputa dei dialoganti, ci dicono che Giovanni Brusca è un fan di Silvio Berlusconi e che lo sono anche i suoi cognati Gioacchino e Salvatore Cristiano. E fin qui sono affari loro. Ognuno ha le sue simpatie, le sue convinzioni politiche, si potrebbe anche dire: ognuno ha i fan che si merita. Ma non è questo il punto. Da quelle discussioni a ruota libera emerge non solo la simpatia politica dell’uomo che spinse il pulsante del telecomando a Capaci, emerge anche una sorta di sintonia tra gli interessi di Berlusconi e i progetti stragisti di Cosa nostra. Coincidenze ovviamente, perché al momento non vi è prova alcuna di sollecitazioni del Cavaliere in tal senso.

Un episodio su tutti è quello che riguarda il disvelamento della volontà di compiere un attentato contro l’editore di Repubblica, Carlo De Benedetti. Ascoltiamo Brusca. “Avrei motivo di uccidere no Di Pietro, ma a De Benedetti… quello che era quindici anni, vent’anni fa è ancora oggi… la guerra non è fra Berlusconi e questi della sinistra. La guerra è tra Berlusconi e De Benedetti con Repubblica e tutto il resto”. Sembra di sentire i concetti usati tante volte, sempre per assoluta e fortuita coincidenza, dal Cavaliere, quando parla di complotto di certa stampa e di certa editoria per sovvertire le scelte elettorali. O di altre amenità simili.

Ma non è solo questo il punto che emerge da quelle conversazioni. Salta agli occhi il mutare degli obiettivi. Non più il singolo giornalista minacciato, il cronista su cui si consumano progetti di morte, ma l’idea di colpire il sistema stesso dell’informazione.

Uccidere un editore, uno dei più importanti del Paese, eliminare un antagonista irriducibile di Berlusconi, ebbene questo è un progetto che ci racconta qualcosa di diverso dal rischio col quale i giornalisti che si occupano di materie “sensibili”, devono ogni giorno fare i conti.

Il fluire del pensiero di Brusca ci racconta di una mafia che si fa strumento in un tentativo di sovvertire il sistema informativo, di colpire e far mutare rapporti di forza. Un ruolo complicato assai per i vaccari di Corleone.

Il gruppo L’Espresso/La Repubblica, pur con i suoi limiti, rappresenta uno dei capisaldi informativi della libertà e della democrazia. Forse ne rappresenta, per la disponibilità di mezzi e la diffusione dei suoi prodotti, il caposaldo principale. Brusca che parla di guerra tra Berlusconi e De Bendetti. Parla di qualcosa di estraneo agli interessi diretti di Cosa nostra. Parla di interessi diversi, interessi “politici” (non nel senso di destra e sinistra) e per difendere tali interessi afferma che avrebbe dovuto uccidere l’editore di Repubblica. Una frase che fa riflettere anche sul ruolo, sui rapporti di forza tra la mafia corleonese e entità esterne. Un rapporto che con larga probabilità vede, sin dalla stagione delle stragi, la mafia in una posizione subalterna, gregaria rispetto ad altri interessi, ad altre forze. Soggetti che non sono più referenti per la mafia, ma dei quali la banda corleonese sarebbe divenuta solo mero braccio esecutivo, sperando di lucrarne vantaggi.

Oggi Brusca – dopo l’evidenza delle intercettazioni – ha deciso di parlare anche di Berlusconi, dei denari veicolati negli anni ’70 e forse di altro. Gli è stato giustamente chiesto conto dai magistrati di Palermo del perché non lo ha fatto prima, in quattordici ani di collaborazione. La sua risposta è disarmante: “perché non mi andava di chiamare in causa persone che ci avevano aiutato, Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri“.

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