Fabrizio Mazzonna, romano, 29 anni, è un cervello che sta per lasciare l'Italia. Lo farà a luglio. Destinazione: l'università di Monaco dovo lo hanno chiamato per la sua ricerca sul declino cognitivo in seguito al pensionamento. Allo studio è interessato addirittura il ministero del Welfare
I suoi studi sul declino delle capacità cognitive in seguito al pensionamento hanno già conquistato il Munich center for the economics of aging, un ente collegato con l’università di Monaco, che orienta il mercato interno e le politiche pubbliche in materia di sanità e welfare. Fabrizio Mazzonna, 29 anni, laureato in Economia a Tor Vergata non era partito con l’idea di fare ricerca. Non ha fatto neanche l’Erasmus, e ha lavorato tre quattro volte a settimana come istruttore di nuoto e come bagnino d’estate. Dall’Italia, dopo il master e il dottorato (quattro anni e mezzo, dopo la tesi sperimentale in economia e istituzioni) è entrato e uscito come dalla piscina che gli ha pagato gli studi: ha girato per conferenze negli Stati Uniti, ha lavorato sette mesi a Londra come visiting student alla Ucl, in California e alla fine in Germania. Il paese che adotterà il nostro “cervello”. In fuga il prossimo luglio. “Non lo faccio per cambiare aria, sono contento da un lato perché ho un’opportunità importante, dall’altro però mi dispiace di andarmene perché tante possibilità nel nostro paese non ci sono e una simile poi proprio non c’è”.
Lui che dice di non riuscire a scendere a compromessi ha preferito la sfida di confrontarsi con i suoi coetanei “che in Germania hanno già moglie e figli, ma lo Stato ti paga di più se hai moglie, ancora di più se hai figli”, e l’amarezza dei pregiudizi con cui è vista la ricerca – e i ricercatori – italiani: “L’Italia ormai è fuori dal circuito degli atenei e dei centri che contano davvero a livello internazionale. Perché non produce buona ricerca, non è competitiva, non attrae”.
Fabrizio porta in valigia fine settimana pieni di lavoro e un’idea liberista per smuovere il sistema: stabiliti i criteri di valutazione e assegnati i fondi agli enti in base ai risultati che loro ottengono, per lui l’università è libera di prendere chi vuole. “Quello che succede in Germania. Il mio boss seleziona le persone, poi si prende la responsabilità di cosa e quanto verrà prodotto dal gruppo. Se sbaglia su chi assumere va a casa”. La prima scrematura avviene su curriculum e sulle “lettere di raccomandazione”, referenze vere e proprie, “venendo da un’università italiana sono un po’ svantaggiato perché i programmi di dottorato all’estero sono migliori in media”. Perché? “Migliori professori (“anche quelli italiani migliori stanno all’estero dove su 10 6/7 sono eccellenti e non come qui che il rapporto è 1 su 20”), migliori programmi, e un miglior ambiente di ricerca in generale. Selezione migliore: entrare in un dottorato di ricerca negli Stati Uniti e in Inghilterra è più difficile che qui in Italia”. Tornando al suo fly out, “è uscita su Internet la posizione aperta all’ente – spiega il ricercatore – ho mandato il mio cv e sono stato chiamato. Non ho dovuto fare superconcorsi come in Italia ma sono andato lì, ti pagano il volo, la cena il pranzo, l’albergo, ti danno un’ora e dieci minuti di tempo, prima ho presentato il mio lavoro con slide sul declino del capitale umano e delle capacità cognitive in seguito al pensionamento davanti a tutto il dipartimento, almeno una trentina di persone, loro mi interrompevano se non capivano dei punti o se qualcosa non andava. Così dai prova del tuo lavoro, delle tue capacità di esposizione, poi passi la giornata con loro e inizi a parlare in modo informale con quelli che potrebbero essere i tuoi futuri colleghi”.
Ma perché la scelta di andare all’estero? “Per uno come me o vai a lavorare in banca d’Italia, e c’è un concorso in cui ci sono migliaia di candidati che provano ogni due anni a entrare, e con una qualifica più bassa della sua”. Oppure tenti il concorso da ricercatore. Però il concorso ti prospetta uno stipendio di 1.300 euro e il massimo a cui puoi arrivare è 1.500 euro. E dal punto di vista professionale tutti i limiti del sistema italiano: i problemi del baronaggio, molti dei concorsi sono orientati, e per tutti quello che vogliono rimanere in Italia c’è la lista d’attesa dove ci sono quelli di 35 anni che vogliono entrare. E spesso le facoltà italiane sono poco “internazionalizzate”, la qualità della ricerca è bassa. “A quel punto guardi fuori, dove le opportunità di lavoro sono tante sia in Europa che negli Stati Uniti”.
Rientrerà? Spera di sì, dopo essersi fatto una posizione. Il rientro dei cervelli non funziona, “qui rientrano quelli che fanno una scelta di vita, che rinunciano a guadagnare per una qualità di vita migliore, ma rientrano in età troppo elevata, anche a 50 anni, sono anche bravi professori, ma la loro spinta propulsiva che avevano nei primi anni l’hanno persa. Non è solo il problema economico, dice Fabrizio, “che è condizione necessaria ma non sufficiente. Bisogna riformare il sistema per attrarre una persona che torna in Italia e non catapultarla in un ambiente dominato dal baronaggio, poco competitivo, dove gli unici interessi sono quelli legati alle politiche interne all’università”.