Qualche settimana fa, al Courtauld Institute, che ha sede nella fastosa Somerset House a sud dello Strand, è stato dedicato un seminario all’Italia degli anni Novanta, Dalle Tute bianche ai Book bloc, coordinato da Federico Campagna e Daisy Jones, ospiti Francesco Raparelli e Marina Montanelli, che animano da tempo le iniziative e i dibattiti del collettivo Uniriot alla Sapienza. Si è parlato delle rivolte di ieri per spiegare quelle di oggi; per capire se le prime abbiano avuto ragione d’esistere, fosse anche solo a «posteriori», e se le nuove abbiano adesso motivi e credenziali per durare.
C’è una parte piccola ma non invisibile di studenti anglosassoni che, pur ignorando le performance dei Benigni, dei Fazio, degli Scalfari e dei Veltroni, o dei nostri pagatissimi comici-militanti, si ostina a voler studiare cosa di buono abbiamo combinato nel nostro passato recente. E se sugli anni Settanta è anche giusto che scenda, se non l’oblio, quanto meno un po’ di silenzio, tant’è la retorica contrapposta di reduci e reazionari, non si capisce perché dobbiamo dimenticare pure cosa sono stati i nostri anni post-Tangentopoli. Come ha scritto Alex Foti nel suo utilissimo Anarchy in the Eu, per tutti i movimenti politici che non si trovassero a Kinshasa o a Sarajevo i Novanta sono stati una vera esperienza psichedelica, a confronto con la «cupezza gotica» degli anni Zero.
E non sorprende dunque l’interesse di un istituto certo non «incendiario» quale il Courthauld per quei gruppi che dal punto di vista teorico, linguistico, creativo, estetico persino, hanno più volte ispirato altre radicalità europee, e che con queste si sono interconnessi, confrontati, riuniti. Gli stessi Book bloc vengono da lì, dalle Tute bianche, non certo dai video-appelli di Repubblica.
Mentre osservavo quei ragazzi che anziché fare la fila per la Fashion Week prendevano appunti sul G8 di Genova, l’Onda, la nuova strategia della tensione, non riuscivo a capire dove finisse il mio entusiasmo e iniziasse, piuttosto, il mio senso di colpa: dieci anni fa attribuivo a molti dei gruppuscoli anti-globalisti la responsabilità di aver troppe volte ceduto al narcisismo, all’autoreferenzialità, alle lusinghe dei talk show senza averne preso le misure. E vari compagni-zapatisti-del-bar-a-fianco mi davano, e in parte ancora mi danno, l’impressione di sfruttare le manganellate prese dai celerini per arrivare al posto in Parlamento, per fare del mediocre terzo grado agli «adulti» senza mai mettere sul piatto le proprie contraddizioni. Ma la storia ha dato comunque ragione a loro e non certo agli editorialisti liberal, ai pensosi ex-incendiari, o ai «fratellini» criticoni come me.
Tornando a questi giorni in cui le università sono in subbuglio – il 19 marzo s’è tenuto un bell’incontro all’Ica, l’Istituto d’arte contemporanea, sacrosantamente intitolato «Perché lottiamo?», e il 26 un’altra grande marcia contro le banche – un dubbio mi perseguita: e se non durasse? E se, per l’ennesima volta, gli studenti indietreggiassero, schiacciati dalle troppe responsabilità che portano sulle spalle?
Quali basi comuni dovrà trovare questo movimento, se davvero europeo deve essere, se davvero il confrontarsi qui a Londra deve servire a qualcosa? Sulla semplice e ordinaria reazione alle scelte dei governi, il «No Cuts!»? Oppure dovrà ritrovare in questa sensazionale interconnessione la possibilità di ridiscutere le regole del gioco e dello sfruttamento, lo stesso senso di essere opposizione, riprendendo quanto di buono è stato fatto, un tempo non lontano, dai fratelli maggiori?
di Paolo Mossetti, scrittore e curioso, nato a Napoli nel 1983, tra i fondatori dei gruppi attivisti Il Richiamo e Through Europe. Vive a Londra.
Nella foto, i Book bloc durante la manifestazione degli studenti contro il decreto Gelmini del 22 dicembre 2010. Per ingrandire clicca qui