Che cosa avrà spinto il ministro Alfano ad abbandonare il ruolo di garante come guardasigilli del buon andamento della giustizia evocando, seppure tra gli intimi accorsi ad una conferenza, la piazza come scorciatoia per far approvare la sua riforma? Non ho una stima particolare per il personaggio, lo confesso. Sarà perché chi lo ha proposto come ministro insiste ad avere dei cattivi rapporti con la giustizia, sarà per qualche frequentazione che ne avrebbe dovuto sconsigliare la nomina. Gli studi che lo hanno portato alla laurea in giurisprudenza comunque mi avevano quasi convinto della sua competenza in materia di giustizia, ma, ahimè, gli ultimi provvedimenti e dichiarazioni non depongono a suo favore.
Paragonare medici e magistrati, lasciando intendere che i secondi non paghino, come se la legge Vassalli (13 aprile 1988, n.117) non fosse mai stata emanata (per studiarne una più mirata), o affermare che “non ci sarà alcun beneficio per Berlusconi” grazie all’epocale riforma preannunciata, non lascia dubbi sul fatto che i buoni propositi manifestati per snellire l’iter giudiziario altri non siano che pretesti per legiferare a favore di qualcuno, e non importa se con danno di altri.
Piero Calamandrei, avvocato, scrisse un elogio dei giudici. Non si pretende che il guardasigilli lodi le doti dei magistrati, ma che magari ne riconosca i giusti consigli, che pure vengono elargiti, o che almeno finga di prenderli in considerazione. Invece chi critica la riforma “si rifugia nel benaltronismo [in scienze politiche si chiamerebbe benaltrismo, ma è una licenza che concediamo al ministro, nda] per uccidere il riformismo”. Se il ministro e il governo fossero veramente interessati alla giustizia, ascolterebbero i consigli e le critiche di Nicola Gratteri, di Piercamillo Davigo, di Giancarlo Caselli.
Ma forse, a guidare il ministro Alfano non è né l’incompetenza né l’ossequio al capo, ma semplicemente la scarsa umiltà. Nella cultura si parla di umiltà, l’umiltà di riconoscerci nani, che camminano sulle spalle di un gigante. Nei pochi anni di governo, Alfano è riuscito nell’impresa di negare o minimizzare principi enunciati nei secoli da Pericle, Cicerone, Montesquieu, Beccaria, principi su cui si basa la nostra Costituzione, così come quelle delle altre nazioni democratiche e liberali.
“La convivenza civile si basa sul governo delle regole e non sulle regole del governo” affermava Piero Gobetti. La parola “libertà” che è parte integrante del nome del suo partito, ministro Alfano, ha un significato ben più alto di quello che questo governo sembra perseguire e che la satira, da sempre non alleata del potere, aveva già smascherato da tempo.