È fatta. Il Consiglio europeo del 24 e 25 marzo ha varato la nuova governance economica europea, e come previsto lo ha fatto secondo il “metodo dell’Unione” – espressione coniata dalla Cancelliera Merkel che ho cercato di analizzare nel mio post Due idee dell’Europa.
Un articolo efficace di De Standaard del weekend 26-27 marzo riassume le tre lezioni che l’Europa ha imparato dalla crisi economica: 1) è meglio dissipare ogni dubbio sulla solidarietà tra gli Stati dell’Eurozona (e dell’Ue), in modo da soffocare sul nascere speculazioni finanziarie; 2) la disciplina di bilancio può prevenire situazioni molto difficili, come quella attuale; 3) è meglio ridurre le differenze tra Stati (il che al momento vuol dire somigliare un po’ tutti alla Germania).
Un maligno potrebbe dire che queste lezioni e conclusioni avrebbero potuto essere imparate già all’atto dell’introduzione dell’Euro, quando era chiaro il disequilibrio tra il lato monetario, affidato alla Bce, e il lato economico lasciato agli Stati senza coordinamento. Forse la crisi – per quanto riguarda l’Europa – avrebbe allora avuto conseguenze meno disastrose, e in ogni caso ci sarebbe stato modo di verificare e rinforzare meccanismi esistenti, invece di metterne in piedi in fretta di nuovi.
Ma queste sono solo elucubrazioni di chi vede il bicchiere mezzo vuoto. La parte mezza piena è altrettanto degna di nota, e segna un momento storico perché “rompe la tradizione e va contro le preferenze politiche di molti Stati membri”, come scrive John Wyles in European Voice il 17 marzo. “I nuovi approcci alla sorveglianza e al coordinamento delle politiche economiche hanno il potenziale di indebolire l’autorità nazionale in aree politiche finora riservate gelosamente ai governi e parlamenti degli Stati membri” (traduzione mia). Questo, continua Wyles, succede proprio in un momento in cui l’Unione è molto frammentata e si registra un’attività particolarmente intensa in diversi Stati per impedire all’Ue di assumere ulteriori poteri. Eppure i governi nazionali sono alla mercé di forze troppo potenti per farvi fronte da soli. Risultato: messi alle strette dalla realtà, gli Stati hanno dovuto sottoporre a coordinamento europeo materie-santuario (fino a ieri) delle sovranità nazionali, quali età di pensionamento e negoziati dei salari.
A me interessa focalizzarmi qui sulle possibili conseguenze nella sfera pubblica europea di questa svolta.
A guardare i giornali che leggo di solito non si nota chissà quale differenza; poche notizie, spesso approssimative, praticamente nessuna analisi approfondita se non puramente economico-finanziaria. D’accordo, ci sono eccezioni come il commento citato su European Voice e anche l’articolo di Stefano Feltri sul Fatto del 26 marzo, che però resta nel solco di un’analisi “tradizionale” con forte filtro nazionale.
Ho letto invece con interesse un passo dell’intervista a un rappresentante sindacale (di quelli che hanno manifestato a Bruxelles all’inizio del vertice rendendo un inferno per il sottoscritto arrivare al lavoro). In sostanza diceva: non ha senso prendersela con “l’Europa” in astratto; l’Europa sono i governanti che abbiamo eletto, è a loro che dobbiamo rivolgerci e chiedere conto delle loro azioni.
Sembra niente, ma forse è segno di un cambiamento importante. I leader, quelli della foto di famiglia e delle asettiche conferenze stampa post-vertice, stavolta ci hanno messo la faccia più del solito. Dando una soluzione intergovernativa alla governance economica si sono esposti in prima persona in materie talmente vicine al cuore degli Stati-nazione che probabilmente ci si ritroverà, presto o tardi, a discutere in Italia delle pensioni degli slovacchi, in Belgio dei salari dei finlandesi, e così via.
Per ora, lato cittadini, si parte da un “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ben rappresentato dalla manifestazione sindacale di giovedì che purtroppo è degenerata in azioni violente. Ma poi, chissà.
Chissà che i giornalisti non capiscano quello che ha capito il sindacalista di cui sopra, e anziché centellinare notizie europee con un filtro tricolore non comincino invece a dare le notizie nazionali con una prospettiva europea. Sarebbe la condizione necessaria alla creazione di un demos transnazionale, a sua volta condizione necessaria per una Ue pienamente democratica. E sarebbe anche logico, perché volenti o nolenti siamo tutti sulla stessa barca, e tanto vale cominciare a conoscerci.
Non esistendo media europei, è fondamentale che i media nazionali siano all’altezza del compito. Questo è dunque un invito aperto al Fatto perché sia pioniere di un nuovo giornalismo, anche in questo campo. E perché non si vedano più titoli come Decide Bruxelles: da sempre, ma ancora più da oggi, si decide insieme, ed è a mio avviso preciso compito dei giornalisti informare e alimentare dibattiti ben a monte delle decisioni dei governi.
Disclaimer: Come riportato nella bio, il contenuto di questo e degli altri post del mio blog è frutto di opinioni personali e non impegna in alcun modo la Commissione europea.