Partire è un po’ morire, come dicono le canzonette, e tornare è morire un’altra volta. Specie se devi fare i conti con una schiera di fantasmi – la madre appena morta, gli zii arruolati nelle SS e impiegati nei lager – e la casa di famiglia è intatta ma ha ospitato la Securitate, la polizia politica della Romania comunista, con tanto di cantina adibita alle torture. A quel punto il fatto che a Schässburg – o meglio Sighisoara, in Transilvania – la città dove sei nato e dove vide la luce pure Vlad l’Impalatore, vogliano costruire una Disney di Dracula (progetto abbandonato per la crisi economica) non è che un tocco di cattivo gusto.
Dieter Schlesak, scrittore appartenente alla minoranza tedesco-rumena che vive in Toscana dagli anni ’70, ha affrontato il viaggio e la resa dei conti con l’unica arma di cui dispone: la lingua e la scrittura. E il risultato è L’uomo senza radici (in uscita il sette aprile da Garzanti, sarà presentato il giorno prima al circolo dei lettori di Torino da Claudio Magris, alle ore 18). Il terzo capitolo della “trilogia transilvana” è un intimo e tormentato avanti e indietro tra spazio e tempo, Romania, Germania e Italia, storia familiare e nazionale, memoria e morte, oblio e letteratura. Di tutti i tormenti, uno in particolare ulcera la coscienza di Schlesak: se non fosse nato nel ‘34 ma solo otto anni prima sarebbe finito nelle SS e dopo allora si sa gli ordini sono ordini, il dovere è dovere. Però ha avuto l’età giusta per credere nel comunismo…
«Il nazismo – dice Schlesak – non fu solo entusiasmo per Hitler. Molto più pericoloso fu quel che accadde a miei quattro zii. Dopo il ’43 c’era un patto tra Berlino e Bucarest, per cui tutti i tedeschi della Romania dovevano arruolarsi nelle SS. Col comunismo il flirt fu ideale (Marx!), giovanile, da studente. Finì nel ’61/62, quando conobbi la Securitate».
Nel romanzo ci sono pagine sulla persecuzione che subì quand’era redattore della Neue Literatur, una rivista letteraria di Bucarest in lingua tedesca, e un amico, Mircea Palaghiu, cercò di pubblicare un pezzo di satira sul comunismo.
«Mi torturarono soprattutto psicologicamente, mi picchiarono. Al potere c’era lo stalinista Gheorghe Gheorghiu-Dej. Ceausescu arrivò dopo e per noi tutti fu un liberatore. Solo nel ’71 iniziò la linea dura. Oggi tutti identificano i crimini del comunismo rumeno con Ceausescu, un falso storico alimentato da scrittori tedesco-rumeni che sono venuti dopo, come Herta Müller e Werner Söllner. Sotto Ceausescu hanno sofferto ma non come prima. Il risultato è che il periodo più sanguinoso, sotto il tiranno Gheorghiu-Dej, è stato dimenticato».
Ceausescu piaceva all’Occidente.
«Non era un trascinatore di masse come Hitler, era esile, balbettava, non sapeva parlare, sopportarlo tutti i giorni in televisione insieme alla moglie Helena era la vera tortura. Ma quando il 21 agosto del ’68 definì l’invasione di Praga “vergogna per il socialismo” scatenò entusiasmo. Tutti credemmo che la Romania sarebbe diventato un paese libero e umano. Quello stesso giorno andai all’Unione Scrittori per iscrivermi al partito, prima mi ero rifiutato, con difficoltà: avevo un posto di responabilità nella cultura. La condanna di Ceausescu aprì le frontiere dell’Occidente e fu possibile viaggiare. A ottobre ero già a Parigi. Fu entusiasmo autentico. Ma dal ’71 in poi non sono mai più stato d’accordo con la sua linea politica. E non sono mai più stato nel partito».
L’Occidente concesse prestiti alla Romania, la regina Elisabetta conferì una onorificenza a Ceausescu e non fu l’unica. Quando represse la folla nell’89 e fu giustiziato insieme alla moglie, l’Occidente l’abbandonò e le onorificenze furono revocate. Atteggiamento ambiguo come con Gheddafi?
«È vero, ci sono somiglianze tra i due. Ridicoli, megalomani. Ceausescu si definiva il Genio dei Carpazi! Il culto della personalità li accomuna. I parallelismi tra la caduta dei regimi comunisti e quelli arabi sono molti. E’ come Gheddafi, Ceausescu ha messo l’apparato militare e le truppe speciali contro il suo popolo, uccidendo anche donne e bambini. Ma la maggioranza delle mille vittime dell’89 in Romania furono uccise dopo la fucilazione di Ceausescu. E fu grazie alle sue aperture che potei lasciare il paese nel 1969».
Perché si trasferì ad Agliano in Toscana e non in Germania come il resto della famiglia?
«È un bel posto per scrivere. In fondo l’Italia rappresentava un territorio neutrale, dove il passato faceva meno male. Quando lasciai la Romania, in Germania i crimini del nazismo erano ancora rimossi, il lavoro di coscienza del popolo tedesco era solo all’inizio».
Per Dieter quel lavoro non è mai finito ed è esploso nelle pagine di libri come L’uomo senza radici e Il farmacista di Auschwitz – secondo capitolo della trilogia transilvana – sul dottor Capesius, amico di famiglia addetto allo Zyklon B nel lager che in Italia è stato pubblicato di recente, sempre da Garzanti ed è stato il suo libro più venduto e conosciuto, quello che lo ha reso noto al nostro pubblico. È uno scavo storico e personale incessante e continuo, quello di Schlesak, letterariamente reso con una prosa densa ma fluida che trae forza dall’orecchio lirico, dall’essere anche autore di opere di poesia. E dove gli orrori del secolo che ci siamo lasciati alle spalle sono raccontati – senza sconti etici e tantomeno estetici – anche attraverso dettagli “forti”, come l’incessante odore di pelle e capelli bruciati ad Auschwitz o il rumore dei crani dei bambini fracassati contro i muri dai nazisti a Sant’Anna di Stazzema, non lontano dalle montagne dove Schlesak vive e scrive.
Lo scrittore di Sighisoara ha rischiato un’altra separazione; prova vergogna per Berlusconi, ha smesso di capire gli italiani, voleva lasciare l’Italia ma continua a vivere nelle colline dietro a Camaiore. Scende al mare per andare a vela col Frasquita, una vecchia barca inglese, insieme alla moglie, conosciuta a Stoccarda (era redattrice della Fischer, dove pubblicò i suoi primi libri). Così si allontana dai fantasmi transilvani, dallo stress da (in)civiltà prendendo il largo e ascoltando solo il mare e il legno che cigola quando la vela si gonfia e “finalmente anche il motore ausiliare è spento”. L’arte della fuga è più lieve di quella del ritorno.
Una versione abbreviata di questa intervista è apparsa su Saturno, Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2011