Per asparagi e triglie. Sono venuto via dalla campagna e da quattro mesi rivivo sui tetti della mia città. Sotto di me ogni mattina un forno riempie l’aria con le sue molecole di pani e dolci cotti insieme a pizze e a schiacciate con patate o cipolle. Stamani all’alba i colori di un potente tramonto, il viola, il rosso acceso fino a un esplosivo giallo oro rimbalzavano su lunghe striature di notturne, sottili e nere nubi.
So che non vedrò più quei mandorli in fiore, quei lillà, quelle mimose e quella marea di giaggioli che segna il nostro territorio. So che non raccoglierò fra gli ulivi i primi anemoni della stagione e che non andrò fra le cespe di asparagina, alla base dei vecchi tronchi, a raccogliere asparagi selvatici con cui per anni mi sono fatto piccole e deliziose frittate con i miei figli.
Io sono venuto via e sono tornato in città ma chi è rimasto ha raccolto e, dopo aver soffritto cipolla bianca affettata sottile in olio, ci ha ripassato dentro gli asparagi selvatici mondati dalle loro durezze per poi cuocerci dentro un riso, mantecandolo alla fine con una noce di burro e un pugnello di parmigiano. Molecole profumate intorno a un tavolo a cui, per fortuna, sono stato invitato. Piccole porzioni di riso che invadeva, con il suo profumo, la mia bocca trasformandosi in sapore. Svenevolezze che si aggiungono ad affetti familiari e ad amicizie durature.
Tramonti guardati dalle finestre opposte di una casa che mi permette di immaginare che poco più in là, lasciata Firenze verso la Val d’Era, vi è un mare che mi ha regalato per mano di un pescatore, due kg di piccole triglie che ho infarinato e fritto in olio d’oliva per poi depositarle su una carta gialla facendo così sparire l’untuosità residua. Una volta freddate ho condito le triglie con qualche goccia d’aceto bianco, foglioline di salvia tritate sgarbatamente con un non-niente di rosmarino e aglio, aggiungendo un filo d’olio crudo per ulteriore condimento. Un lussuoso scapece di triglie che mi ha fatto alzare gli occhi al cielo per ringraziare qualcuno a cui non credo.
Molecole che nella loro invisibilità finiscono per scatenarmi le endorfine e il buon umore.
Materia assunta che si trasforma in materia, cibo che alimenta il mio corpo.
Materia che insieme ai gesti del raccogliere, del pescare e del cucinare produce un laico spirito stracolmo di buon umore. Antidoto necessario alle tristezze, ai cattivi pensieri, alla voglia di scappare da questo paese, alla voglia di tradire ideali e sogni.