Mediterraneo: cimitero postmoderno, fossa comune, immenso sepolcro. Queste sono le immagini che i giornali di oggi forniscono del Mare Nostrum, dopo la strage di ieri notte nel Canale di Sicilia. Più che un mare, il Mediterraneo sembra un campo di battaglia, dove si ammassano i corpi dei vinti. Perché il Mediterraneo è un teatro di guerra, in terra e in mare. Piovono le “umanitarie” bombe e missili all’uranio impoverito sulle teste dei libici e affondano le barche di coloro che da quell’inferno voglio fuggire (venivano proprio dalla Libia, infatti, gli uomini, le donne ed i bambini che sono morti annegati). Per i restanti abitanti della sponda sud del Mediterraneo è sufficiente la tattica silente: disoccupazione e riduzione alla fame, grazie agli “aggiustamenti strutturali” imposti dalla World Bank e dalla European Bank e dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che hanno come diretta conseguenza la cancellazione di tutto ciò che è pubblico (sanità, scuola, ecc.), in nome del liberismo e del profitto. Assistiamo, dunque, a quella che si chiama guerra totale. Ed è in corso da anni. Ma in pochi hanno occhi per guardare.
Eppure, negli ultimi decenni, non si è fatto altro che parlare di Mediterraneo. Si è così tanto parlato che il (tema del) “Mediterraneo” è divenuto, nel corso del tempo, un fertile terreno dove si producono teorie etico-politiche e si costruiscono persino assessorati e carriere burocratiche. I “mediterraneisti” hanno riempito biblioteche intere decantando – anche giustamente! – le virtù delle civiltà, delle culture, dei paesaggi e delle filosofie mediterranee. Alcuni, presi dalla passione, sono giunti perfino a vedere nel Mediterraneo quel “pluriverso” di civiltà che, da solo, può contrapporsi – e resistere – alle derive “oceaniche” della globalizzazione. Quindi, le “culture” del Mediterraneo ci sono state rappresentate per anni come (la naturale e facile) alternativa all’universalismo del Nord, cioè all’universalismo del capitale.
Riscontriamo, giorno dopo giorno, il fallimento di tali tesi. L’economia di rapina (e le sue conseguenti guerre “umanitarie”) si diffonde ovunque e si rivela l’unica forza in grado di piegare a sé, alla sua logica di accumulazione senza fine, ogni cultura e civiltà. Di fronte alla tragica realtà dei mediterranei, lasciati concretamente nelle mani degli eserciti, imprenditori e avventurieri vari, il ventennale dibattito sul “Mediterraneo” ci rivela soltanto la sua collocazione nel mondo dell’iperuranio.
Ma gran parte dei mediterranei, per fortuna, sanno, nonostante alcuni loro illustri intellettuali – che per ora preferiscono accomodarsi dietro la corazza abbagliante delle metafore e delle iperboli – che l’ingiustizia fatta da mani umane può essere disfatta da altre mani umane. Che non è più tempo di linguaggi cifrati e che bisogna aprire gli occhi e dire la verità, prima che una tempesta, o delle bombe, spazino via per sempre la “patria”. Che non è più tempo di discorrere di alberi e che bisogna dire no alle guerre, per costruire un Mediterraneo all’altezza della sua fama e della sua storia, e non un Mediterraneo eretto sulle lacrime solidificate e mute dei vinti di oggi. Bisogna dunque andare in tanti e convinti alla manifestazione nazionale contro la guerra indetta a Napoli per il 16 aprile prossimo, anche per iniziare a riscattare la nostra umanità di mediterranei.