Mentre Hollywood è alle prese con i remake dei suoi cult passati, John Carpenter torna al cinema con The Ward – Il reparto (dal 1 aprile nelle sale), un film piccolo, per budget e impianto, per cui la critica, fermo restando il doveroso rispetto verso il maestro, ha avuto un atteggiamento tiepido e singolarmente uniforme. Al di là dei simpatici ultrà del grande regista, l’idea diffusa è quella di un’occasione (quasi) perduta, di un atteso e sperato ritorno – il precedente Fantasmi da Marte risale ormai al 2001 – poi rivelatosi in chiave minore. Così, sia a destra che a sinistra, i recensori hanno giocato di fioretto, alternando il rimprovero aggraziato alla carezza.
Non sono molti gli autori, alla stregua di Carpenter, in grado di fornire reali casi da manuale per lo studio dei meccanismi critici, tra atti di fede, rifiuti totali, tifi – pro o contro – più confacenti ad uno stadio che ad un multiplex. Vuoi per il suo autore, dunque, vuoi per il genere (il più caldo tra tutti), The Ward – Il reparto rientrava perfettamente in quella categoria che porta con sé l’estrema polarizzazione dei giudizi: da una parte la fazione della “boiata pazzesca”, dall’altra quella del “capolavoro assoluto”. Ma, questa volta, non è stato così. Inaspettatamente ha trionfato un giudizio medio, moderato e anche un po’ timoroso: la critica “cresce”, lasciando da parte tendenze e prese di posizione, oppure è questo film a mandare tutti al manicomio insieme alle sue brave protagoniste?
Non c’è dubbio che The Ward – Il reparto sia un’opera spiazzante, forse la più inafferrabile diretta dal regista di 1997 – Fuga da New York e Il seme della follia. Dopo i due episodi televisivi girati per la serie Masters of Horror (il primo dei quali, Incubo mortale, è a livelli massimi), Carpenter torna al cinema asciugando il suo stile come non aveva mai fatto, azzerando i preziosismi, andando all’osso della vicenda, all’intimità e al cuore di un gruppo di ragazze chiuse in un ospedale psichiatrico. Ne esce la sua pellicola più emotiva, un melodramma nerissimo che si rivela in tutta la sua carica tragica, in cui anche il filtro horror è un velo che – come l’immagine esteriore – copre, o meglio nasconde, il dramma di una donna impossibilitata a guardarsi dentro.
Se si considera la totale mancanza di originalità dello script, è solo lo sguardo di Carpenter a salvare il film, a trasformarlo – mediante una inedita e lodevole sensibilità registica che ha ingannato i più – in un oggetto filmico degno e innovativo nella sua ricerca di purezza linguistica. A livello generale, i numi tutelari del cineasta rimangono i soliti, a partire da Howard Hawks e Alfred Hitchcock, che non avrebbe disdegnato nemmeno quel twist finale per cui, a conti fatti, il corpo “continua a mutare” come ne La cosa. Tutta persa dietro alle ombre lewtoniane e alle scale a chiocciola del noir, la maniera dello scorsesiano Shutter Island – affiancato al film in una recensione su due – al di là della cornice manicomiale non ha molto in comune con la secca e frontale classicità di un horror qualche spanna sopra agli altri.