Il logo della manifestazione dei precari "Il nostro tempo è adesso" del 9 aprile 2011Il nostro tempo è adesso è il tema della giornata di mobilitazione nazionale di domani, sabato 9 aprile 2011, indetta da un comitato promotore che si presenta come rete di gruppi e collettivi autonomi, con la Cgil a firmare la regia.

L´approccio è abbastanza semplice: fare grancassa mediatica, dare sfogo all’indignazione dei “giovani” presentando la precarietà come condizione generazionale; senza tener conto che la precarietà nasce perlomeno con il pacchetto Treu (1997). E poi avete mai provato a perdere il vostro impiego a 50-55 anni? Come pensate di rientrare nel magico mondo del lavoro? Ad ogni modo, sembrano finalmente finiti i tempi in cui se ne parlava, a sproposito, in termini di “flessibilità” necessaria per il bene del Paese, quando c’era soltanto la Mayday, il primo maggio precario, a sparare 100mila watt di messaggi, rabbia e proteste per le strade di Milano.

Ora la precarietà è sulla bocca di tutti: benissimo! Meglio ancora se domani a parlare saranno i precari e le precarie. E San Precario ha da dire una cosa molto importante: adesso è il momento di parlare di chi ci sta precarizzando la vita. Noi tutti migranti, operai, studenti, lavoratori nei call center, nei supermercati, nelle fabbriche, nelle cooperative, nella ricerca, nell’editoria, negli enti pubblici… non siamo precari per sfortuna cosmica, ma perché precarizzatori con nomi e cognomi ben precisi hanno fatto profitti grazie a un impianto legislativo e a un clima culturale costruiti ad hoc.

Hanno fatto profitti le case editrici, gli studi professionali, i supermercati, le aziende ospedaliere, le cooperative (che si occupino di facchinaggio, pulizie o assistenza disabili) che hanno usato le finte partite Iva, gli stage gratuiti, i contratti a progetto, o una delle oltre quaranta (!) tipologie contrattuali a disposizione per scaricare su chi lavora il rischio d’impresa. Fanno profitti enormi le aziende edili o agricole o della ristorazione che negano diritti agli immigrati senza possibilità di ottenere un permesso di soggiorno a causa di un dispositivo scientificamente programmato dalla legge Bossi-Fini. Ne hanno approfittato i ministeri, i comuni. Ne ha abusato il ministero dell’Istruzione con i contratti a termine di 10 mesi all’anno per un decennio, non in sostituzione ma sui posti vacanti: ciò significa circa 8 mila euro in meno all’anno per un precario che fa lo stesso identico lavoro degli altri ma con molti meno diritti.

In questo contesto la manifestazione del 9 aprile rischia di ridurre i precari a semplici testimonial di se stessi e di una campagna d’immagine della Cgil, consapevole di essere stata a suo modo complice della precarizzazione dilagante in questi ultimi quindici anni. Come possiamo evitare questo? Partiamo da un punto fondamentale: se ci fermassimo noi, si fermerebbe, letteralmente, tutto. Bisogna solo, e certo non è poco, che ce ne rendiamo conto. Per far questo serve un meccanismo reticolare, diffuso, allargato, di comunicazione uno ad uno, in ogni luogo di lavoro, attraverso le mailing list, sui blog. Con un messaggio chiaro: possiamo farlo, possiamo boicottare la produzione, sabotare i profitti, far diventare la precarietà un costo. Possiamo riprendere in mano le nostre vite.

Pensate solo cosa succederebbe se per un giorno non funzionassero i trasporti, non arrivassero le merci nella grande distribuzione, non funzionassero i call center e i server informatici, non rispondessimo al telefonino. Tutti, allora, sarebbero costretti a tener conto che i precari e le precarie sono diventati protagonisti: hanno richieste e proposte, sono soggetti portatori di interessi ben precisi, inconciliabili con quelli dei precarizzatori. Tutti capirebbero che non siamo solo sfigati da intervistare, poverini da commiserare, burattini da chiamare ad una “general-generica” indignazione senza futuro quale rischia di essere il 9 aprile, se non si indica cosa fare per uscire dalla precarietà. Per esempio un welfare anche per i contratti atipici, o un reddito di base come esiste nel resto d’Europa. O l’abolizione delle leggi precarizzanti (Treu, Biagi, Turco-Napolitano e Bossi-Fini). Se ne deve parlare oltre il 9 aprile.

Certo, non è facile che i precari si rendano conto della propria forza, si riconoscano come soggetto. L’atomizzazione, il ricatto miscelato al consenso, la mancanza di rappresentanze sindacali adeguate e sponde politiche presentabili sono ostacoli non da poco. Si tratta di vedersi, riconoscersi, capire come fare; settore per settore, luogo di lavoro per luogo di lavoro. Di questo si parlerà il 16 e il 17 Aprile a Roma, alla terza edizione degli Stati Generali della Precarietà 3.0 – Verso lo sciopero precario. Ne abbiamo veramente una gran voglia.

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