Bengasi – Ribelli e civili in fuga da Ashdabia. In un’altra giornata di guerra, le forze lealiste del colonnelli Gheddafi guadagnano terreno. La situazione, alle 8 del mattino, è relativamente tranquilla al fronte, che da oltre una settimana si trova a 40 chilometri da Brega, a metà strada con la città fantasma di Ashdabia.
I ribelli sembrano più organizzati dei giorni passati, anche se il coordinamento continua a fare acqua da tutte le parti. Il primo punto su cui sono divisi è se far partecipare i giornalisti alle operazioni o meno. Vince il fronte dei no e alla stampa viene spiegato che per ragioni di strategia militare non è possibile rimanere in prima linea. “Abbiamo armi che non vogliamo mostrare in televisione”, dice un ribelle. “Sappiamo che per noi i media sono fondamentali – prosegue – ma in questo momento, almeno finché non saremo a Brega, non vogliamo giornalisti in prima linea”. Inizia così per i giornalisti la ritirata verso la porta occidentale di Ashdabia, a 20 chilometri, dove la Polizia militare ha allestito un check-point.
Per tutta la mattina pick-up di giovanotti armati con uniformi sovietiche e kalashnikov fanno avanti e indietro. Il camion con i rifornimenti di cibo è pronto a partire quando il fischio delle ambulanze rompe il silenzio. Una, due, cinque ambulanze a tutta velocità passano davanti al posto di blocco. A seguire auto militari cariche di feriti sfrecciano verso l’ospedale di Ashdabia.
L’ospedale della città è un via vai di auto con feriti e ribelli. “La Nato ci ha bombardato”, dice un ragazzo su una barella con le caviglie frantumate”. “Dovrebbero aiutarci e guardate cosa fanno”, accusa Suleiman, uno dei dottori dell’ospedale. “Hanno distrutto metà delle armi pesanti che si trovavano in prima linea – continua – e a questo punto mi viene il dubbio che stiano dalla parte di Gheddafi”. Ma la situazione, negli ultimi giorni, è cambiata. L’Esercito di Gheddafi avanza senza carri armati e mezzi pesanti. La strategia è la stessa dei ribelli. Pick-up con armi pesanti a bordo avanzano velocemente, l’artiglieria scarica una selva di razzi e tornano indietro per evitare di diventare il bersaglio degli aerei NATO. “C’è stato uno scontro a fuoco con scambio di mortai”, dice Mahmmud, uno dei ribelli seduti a fianco alle barelle degli amici feriti. “In cielo si sentivano gli aerei, poi una bomba è caduta dritta sulla nostra postazione”. Intanto dalla sala operatoria escono i primi feriti. La maggior parte riporta ustioni su tutto il corpo. “Perché la NATO ha lanciato una bomba a Est di Brega quando sa benissimo che le forze di Gheddafi sono a Ovest della città?”, si domanda Mohammed Omar, un ribelle sdraiato su una barella e ferito alla spalla.
Nei corridoi gli uomini armati attendono notizie dalla sala operatoria. Ma non sono delle migliori. Uno dei dottori che affollano la sala comunica che due soldati sono morti ed un terzo è in rianimazione. Morirà da li a poco per le ferite riportate. Mentre nel piazzale di fronte all’ospedale la gente piange i caduti e improvvisa un funerale con un corpo fasciato nelle bende bianche si scatena il panico. La notizia è che l’esercito lealista si trova alla porta occidentale della città, che dista meno di 5 chilometri. Tutti i feriti in ospedale vengono evacuati verso Bengasi. Alcuni con ambulanze, altri con le auto dei pochi cittadini rimasti ad Ashdabia. I ribelli si muovono nervosamente e cercano di riprendere posizione.
Mentre attorno alla città si sente il rumore di armi pesanti, la strada per Bengasi è un fiume di auto civili e camion con munizioni e mitragliatrici a bordo. Ma l’avanzata del colonnello si rivela un falso allarme. I ribelli, che intanto sono indietreggiati nuovamente verso Ashdabia, provano a riguadagnare terreno e si spingono verso Brega, una delle città portuali con terminal petroliferi e strategica per entrambe le parti.
Ma per ora la potenza di fuoco dell’esercito di Gheddafi è superiore a quella dei ribelli, che, nonostante l’appoggio aereo della Nato, non riescono ad avanzare e sono oramai da oltre una settimana nella stessa posizione.