"Siamo dello stesso paese. E poi ero ammirato dalla sua intraprendenza, faceva tante cose". Clodovaldo Ruffato (Pdl) spiega così il suo rapporto con Franco Caccaro, i cui beni sono stati sequestrati pochi giorni fa dalla Dia di Napoli per i rapporti con il boss della camorra Cipriano Chianese
A tre giorni dall’operazione della Dia di Napoli, che ha portato al sequestro di beni dell’imprenditore padovano Franco Caccaro, considerato dagli inquirenti il prestanome del boss della camorra Cipriano Chianese, soprannominato «il re dei rifiuti», si scopre che lo steso Caccaro, ex titolare della fallita «Tpa Trituratori» di Santa Giustina in Colle (Padova) – «il nostro ufficio al Nord Italia», secondo alcuni pentiti casalesi – è stato in affari da 2000 al 2010 del presidente del consiglio regionale veneto Clodovaldo Ruffato (Pdl).
Risulta, infatti, che i due siano stati soci, assieme ad altre due persone, della «Sica Srl», una società che aveva come oggetto sociale «la costruzione di caldaie e il ritiro di rifiuti recuperabili presso centri di trasferimento o piattaforme ecologiche». La società, costituita nel 2000, è stata messa in liquidazione nel 2007 (incaricato della liquidazione proprio Caccaro) e quindi è cessata nel 2010. Un particolare: la sede legale della Sica, a Fratte (Padova), coincide con quella di una delle unità locali della «Tpa Trituratori». Ruffato partecipava all’impresa con 20.800 euro di capitale versato; Caccaro, attraverso la controllata «Flair Company», con 10.400 euro.
Come spiega la circostanza il presidente Ruffato? «Non ho niente da nascondere – afferma il politico veneto – sono in contatto con tantissime persone, non posso sapere se uno ha rapporti con la camorra. Caccaro comunque l’ho visto l’ultima volta una settimana fa, siamo dello stesso paese». Il numero uno di Palazzo Ferro Fini, sede del parlamento regionale, scende nei dettagli. «Non ho mai fatto nessuna operazione con la “Tpa” – dice -. Con Caccaro avevo fatto una ditta per stufe e pellet. In realtà lui non vi partecipava direttamente, ma con una società. Ci conoscevamo, siamo compaesani. E io ero ammirato dalla sua intraprendenza, faceva tante cose. L’idea di mettersi assieme comunque venne a un tecnico, che poi uscì subito». Ma Ruffato non ha mai sospettato nulla del socio, che per altro aveva precedenti di polizia per reati finanziari? Il presunto prestanome del boss Chianese, tra l’altro, negli ultimi anni si era enormemente arricchito. E «senza alcuna ragione economica», come si legge nell’ordinanza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. «Assolutamente no – ribatte il presidente del consiglio regionale -. Lui seguiva le sue attività, io le mie. E poi la nostra società non è mai partita veramente. Abbiamo venduto solo due stufe. Lo assicuro, è stato un fulmine a ciel sereno. Mi auguro solo che le accuse non siano vere. Il tessuto imprenditoriale veneto e dell’Alta Padovana in particolare è sano».
di Giovanni Viafora