Ventimila italiani ogni anno vanno a lavorare nelle università e nei centri di ricerca all’estero. Cervelli in fuga che spesso, dopo un po’ di anni, hanno voglia di tornare. Ma non sempre ce la fanno. Secondo i dati elaborati dal servizio di documentazione del Consiglio nazionale universitario, su 100 che fanno domanda per il rientro, riescono a fare ritorno in Italia solo in 10. E di questi appena cinque trovano un lavoro stabile.
Il problema non è solo la fuga di cervelli, quindi: un’esperienza all’estero, del resto, fornisce sempre un valore aggiunto al curriculum. “Chi parte e trova una collocazione buona rientra con molta difficoltà e l’unica soluzione è mettere risorse sulla ricerca. Benissimo che ci sia la fuga ma dobbiamo sanare questo bilancio passivo tra chi esce e chi viene, o torna, da noi – afferma Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale -. Quello che il nostro paese deve rimproverarsi è proprio di aver fallito nella circolazione dei cervelli. Una pecca grave, perché lo sviluppo di un paese dipende anche dal capitale umano esistente e i progressivi tagli alla ricerca stanno affondando la barca”.
I dati deludenti sul rientro dei cervelli fanno il paio con quelli sulle opportunità nella ricerca. Secondo le stime Ocse, in Italia ha un’occupazione fissa il 56% dei ricercatori che lavorano stabilmente in Francia, il 41% in confronto alla Germania e il 60% rispetto alla Gran Bretagna. “Qui da noi lo stato giuridico dei ricercatori non è ancora definito – spiega Filippo Sabetta, preside di Ingegneria aeronautica e dello spazio alla Sapienza di Roma – e così, paradossalmente, abbiamo anche corsi scoperti. Chi vince borse di dottorato ed è pagato dall’università guadagna meno di chi è assegnista di ricerca e pagato da enti internazionali”.
La situazione, secondo Sabetta, non dà segni di miglioramento: “Sono dieci anni che l’università soffre: dicono di averci dato 800 milioni di euro ma è solo un taglio pesante mascherato perché prima ce ne avevano tolti 1 milione e quattrocentomila. E con tutti i professori che stanno andando in pensione, non se ne riassume neanche uno”.
Gli fa eco Luciano Iess, ordinario alla Sapienza: “Mancano delle politiche di lungo periodo e non si può sovvertire la programmazione della ricerca ogni due anni perché questo impedisce di utilizzare al meglio le risorse a disposizione, sia in termini di capitali economici sia in termini di capitali umani. Ci vogliono dieci anni per formare una persona e non si può neanche dirle, quando ha 35-37 anni, ‘ciao, ora veditela tu’. Ma è chiaro che i più bravi, se non vedono prospettive di carriera e di retribuzione immediata, vanno via”. L’Italia, continua Iess, per un ricercatore o un professore straniero non ha appeal: “Sia a causa degli stipendi, che sono la metà rispetto a fuori, sia a causa degli spazi degli atenei che non sono adeguati – spiega -. Ci sono poi le difficoltà burocratiche che negli ultimi due, tre anni si sono aggravate ulteriormente. Il risultato? Che spesso non tornano i nostri migliori giovani, ma in compenso ci teniamo ‘i più pazienti’. Invece almeno uno sui dieci di quelli che eccellono vorremmo tenercelo qui a fare ricerca dopo averlo cresciuto”.