Non sono ancora quotati in borsa ma per molti sono già l’affare del momento. I colossi della rete vedono crescere le stime sul proprio valore. Ma presso gli analisti il sospetto di un eccesso di entusiasmo si diffonde sempre di più
Per gli analisti britannici e statunitensi si tratterebbe ormai di un problema reale. Un rischio persistente, preoccupante, clamorosamente incombente. Magari non così spaventoso come undici anni fa ma, di certo, sufficientemente concreto da indurre gli osservatori a lanciare l’allarme. Gli ultimi in ordine di tempo sono stati due veterani del settore come Ernst Malmsten e Michael Birch che, interpellati dal Financial Times, hanno espresso quel parere che, da qualche tempo a questa parte, trova ormai un consenso crescente. In un mercato che non ha ancora superato la sbornia dei mutui, una serie di “valutazioni folli” dettate “dall’avidità” starebbe gonfiando una nuova bolla speculativa targata internet.
Malmsten e Birch, come detto, sono due che se ne intendono. Il primo è passato alla storia per essere stato l’artefice del noto fiasco di Boo.com, la internet company britannica collassata su se stessa nello spazio di un anno e mezzo tra il 1999 e il 2000. Il secondo è tuttora ricordato come il fondatore del social network Bebo, ceduto ad Aol nel 2008 per 850 milioni di dollari e da questa liquidato l’anno scorso ad un gruppo di investitori privati. Per meno di 10 milioni. Due storie emblematiche, di cui è ben consapevole, non v’è dubbio, un osservatore attento come Allister Heath, il direttore del quotidiano finanziario londinese City A.M. “Gli esseri umani – spiegava appena una settimana fa in un editoriale – vogliono spesso illudersi che ‘questa volta’ il mondo sia diverso… che le eterne leggi economiche non valgano più. Per questo mi preoccupo quando vedo un sito con due anni e mezzo di vita come Groupon valutato tra i 15 e i 25 miliardi di dollari”.
Il riferimento è chiaro. Wall Street, sostiene Heath, starebbe ripetendo gli errori di undici anni fa quando una clamorosa e ingiustificata ondata di cieco entusiasmo gonfiò la famigerata “bolla dotcom”. Una corsa all’acquisto dei titoli che interessò un significativo numero di neonate aziende del settore. Ambiziose quanto fragili per non dire costruite sul nulla. Il finale è noto: miliardi di dollari bruciati e perdite indimenticabili per gli investitori. Oltre a una memorabile lezione sul rischio delle speculazioni che molti, tuttavia, sembrerebbero aver già dimenticato.
Nel 1999, quando il nuovo mercato tecnologico raggiunse il suo picco, ricorda ancora Heat, le prime 24 aziende del settore valevano, secondo una stima di Morgan Stanley, più o meno 71 miliardi di dollari. Una cifra oggi ampiamente superata da appena 4 colossi della rete come Facebook, Twitter, Zynga e Groupon, il cui valore complessivo, sostiene, oscillerebbe tra i 79 e gli 89 miliardi. Anche se, ovviamente, si tratta di una cifra preliminare, visto che le stesse, ancora non quotate in borsa, presentano prospettive di rendimento sul mercato particolarmente difficili da determinare. Di recente, pur senza fare alcun riferimento esplicito, il miliardario e Ceo di Berkshire Hathaway Warren Buffet ha ipotizzato una sopravvalutazione di alcune aziende del settore. “E’ molto difficile valutare le società del segmento social network” ha dichiarato.
L’analisi delle transazioni compiute dagli investitori istituzionali aiuta a capire meglio il fenomeno. Secondo Bloomberg, il leader dei giochi online Zynga vale oggi 8 miliardi di dollari, vale a dire l’81% in più rispetto a tre mesi fa. Facebook, che a gennaio era stato valutato 50 miliardi ha visto crescere il suo valore fino a 65 miliardi (ma qualcuno, i russi di Otkritie, ha parlato anche di 76). Secondo un sondaggio di Deloitte, riferisce il quotidiano finanziario Globes, il 68% dei manager israeliani del settore venture capital, ritiene che l’effettivo valore del più popolare social network del mondo non arrivi a 40 miliardi. Un giudizio che potrebbe trovare il consenso di Richard Friedman, numero uno di Goldman Sachs Capital Partners, che, a gennaio, aveva giudicato eccessiva la stima compiuta dalla sua stessa banca in previsione del suo primo investimento in Facebook da 450 milioni di dollari.
Sempre a gennaio, intanto, la Securities and Exchange Commission (Sec) degli Stati Uniti aveva iniziato ad indagare sui movimenti finanziari delle grandi società del web per verificare, si diceva, che qualcuno non avesse iniziato a scambiare le proprie azioni coinvolgendo più di 500 azionisti, vale a dire superando il limite legale imposto ai soggetti non quotati, con il rischio di produrre una sopravvalutazione del titolo portandolo al debutto borsistico ad un prezzo troppo alto. Delle indagini, ad oggi, non si è emerso molto. Ma è probabile, almeno stando ai contenuti di una lettera inviata dalla numero uno della commissione Mary Shapiro al comitato per le riforme del Congresso, che l’agenzia di controllo pensi ora seriamente di allentare la stretta regolamentare sulle aziende non quotate. Alzando, tra le altre cose, il limite dei 500 compratori, con una mossa che aprirebbe la strada a nuovi investimenti.