Dilva Giannelli, milanese del 1953, lavorava in una grande agenzia pubblicitaria. Poi tanti anni di precariato. "Sull'autobus vedo chi viene e va dal lavoro e penso: "Loro sì che sono normali"
Prima che esplodesse la crisi globale (“da cui usciremo rafforzati”) si potevano trovare in alcuni periodici titoli come “Precario è bello!”, che esaltavano i piaceri ‘cocopro’ del lavoro instabile. Da tre anni, questi slogan sono scomparsi e sabato scorso il popolo dei precari è sceso in piazza coinvolgendo interinali e stagisti, ricercatori e lavoratori dei call center, giornalisti e giovani imprenditori, archeologi e lavoratori dello spettacolo. Una marcia per non essere condannati a rifare la vita che ha fatto e sta facendo Dilva Giannelli. Milanese, classe 1953, oggi è disoccupata, Dilva ha iniziato a lavorare come art director in una grossa agenzia pubblicitaria e doveva essere brava, perché la lettera che mi scrive per raccontare la sua storia è un documento esemplare sulla ‘fatica di vivere’ nel girone dell’incertezza.
“Lavoravo come art director alla ‘Livraghi, Ogilvy & Mather’ – scrive – dove per 7 anni ho ricoperto, con successo e soprattutto nell’ambito TV, il ruolo di senior art director. Nel 1993, Livraghi, vende la sua quota agli americani e se ne va. Arriva un tagliatore di teste che, senza badare a esperienze, competenze e meriti, mette anche me nell’elenco degli ‘esuberi’. Dopo qualche mese di mobbing (allora termine ancora sconosciuto ai più) non reggo più. Ero troppo abituata a lavorare e amavo il mio lavoro, per cui accetto la proposta del tagliatore di teste (scoprirò, dopo, che mi era stato offerto poco più della liquidazione) e me ne vado, con sussidio di disoccupazione. Allora esisteva…”
Da quel giorno inizia per Dilva un’odissea precaria attraverso piccole e grandi agenzie che ricorrono volentieri alle paghe in nero e, quando serve, anche al mobbing. Sino al giorno in cui la partita Iva Dilva Giannelli vede la sua attività ridursi (anche a causa della crisi) progressivamente a zero. Oggi Dilva fa parte dell’Atdal, l’associazione che da anni si batte per coloro che hanno perso il lavoro dopo i 40 anni, e scrive:
”… La speranza di sentirmi “normale” sta scomparendo. Ogni giorno, sempre più, la mia ‘indefinibilità’ nel mondo lavorativo mi sta togliendo tutte le sicurezze che mi permettevano di definire anche me stessa. Intendiamoci, so che persona sono, conosco i miei pregi e difetti, il mio pensiero, la mia visione etica e sociale ma, senza un ruolo professionale, io non so più chi sono. Da tre anni ad oggi, il fatto di avere ogni anno sempre meno lavoro (il mio vecchio lavoro) fino alla mia totale insufficienza economica, sta mettendo sempre più in discussione anche le mie capacità.
So bene qual è la causa di questa mia vita precaria ma, sempre di più si fa largo nella mia testa il pensiero di non essere all’altezza, di non essere in grado. Mi dico ‘non è possibile che solo io non riesca a ricollocarmi, che l’opportunità di svolgere il lavoro che potrei e vorrei fare (che ho già dimostrato di saper fare più che bene), per me non possa esistere’.
Vuol dire che sono io che non funziono? Che sono io a non essere capace? Mi sento e mi vedo vecchia, molto vecchia, inadatta, fuori luogo. Ogni cosa mi costa enorme fatica perché non so più a cosa serva. A cosa serve mangiare se non ho più alcun obiettivo? O meglio, se il mio obiettivo è irraggiungibile? Perché continuare se non serve a niente?
Chiarisco: non provo affatto disamore nei confronti della vita, l’ho conosciuta ed è bella, belli sono i miei amori, i miei affetti, le mie passioni, le mie battaglie, i miei credo ma, come faccio ancora a credere? Dove trovo la forza?
Ogni settimana, lentamente, cado in un’oppressione pesantissima, uno stato che non mi permette nemmeno di parlare perché il bisogno di piangere è più forte.
Piango fino in fondo e poi, per qualche giorno, mi risollevo un po’. Contemporaneamente a questo ‘tirarmi su’, aumenta la rabbia che, ormai, sta diventando odio. Odio che, addirittura, vorrei sfogare con la violenza. Aumenta l’insensibilità nei confronti dei problemi altrui: tutti sono meno importanti del mio… Tutti, e questo, per la mia coscienza, è inaccettabile.
Però è vero: come posso occuparmi della vita degli altri se sono io a non riuscire a sopravvivere?
Oggi io mi sento ‘diversa’. Quando prendo un mezzo pubblico guardo con invidia e rabbia coloro che vanno o vengono dal luogo di lavoro, e penso: ‘loro sì che sono normali’.
Gli aiuti chimici funzionano sempre meno ed è inutile pensare ad un aiuto psicologico: il mio problema non è esistenziale, è profondamente materiale, reale. Io non ho il male di vivere”.