Obiettivo: battere il New York Times. E continuare a dare notizie gratis. Arianna Huffington, fondatrice del fortunato Huffington Post, studia la strategia per mantenere i contenuti free e di qualità. E per superare i visitatori unici del quotidiano più prestigioso degli Stati Uniti. Lo scorso 7 febbraio la Huffington ha ceduto per 315 milioni di dollari il blog più famoso e letto al mondo al colosso di America On Line (Aol), dove già lavorano 1.200 giornalisti. Oltre al successo già ampiamente accreditato dalla rete, l’HuffPo porta in dote i suoi 25 milioni di visitatori e compie così il primo passo ufficiale all’interno dei media tradizionali. Che su Internet arrancano ancora alla ricerca di un modello di business redditizio.
Il New York Times ne è la prova: dopo 15 anni di navigazione gratuita, dal 28 marzo consente ai suoi lettori di consultare solo 20 articoli al mese. Superata la soglia, si richiede l’abbonamento: 15 dollari al mese su pc e mobile, 20 su tablet. Insomma, per leggere davvero il giornale, oggi si paga. Una decisione strategica quella del New York Times che fornisce un assist alla Huffington: in veste di ‘editor in chief’ dei contenuti dell’intero portale di Aol, la milionaria di origini greche vuole ora scavalcare il traffico e la visibilità del New York Times, mantenendo i contenuti gratuiti. Per farlo ha già annunciato di volere assumere giornalisti e firme proprio della testata più prestigiosa degli Usa che andranno ad aggiungersi ai 148 cronisti che già lavorano per l’HuffPo. E chissà che la Huffington non stia pure facendo selezioni tra i giornalisti delusi di The Daily, il quotidiano per iPad lanciato da Rupert Murdoch, che a soli due mesi dal lancio si è rivelato un flop inaspettato.
Quella di Arianna Huffington è una scalata al potere mediatico esplosa nel 2008 durante la campagna elettorale di Barack Obama, quando il blog si proponeva come antagonista al filo repubblicano Drudge Report. Un successo in Rete che non ha avuto precedenti e, soprattutto, non ha dovuto affrontare il nodo della sostenibilità economica: sull’HuffPo, che pubblica 600 articoli al giorno, i blogger non ricevono assegni, ma visibilità. Una merce di scambio insufficiente per 500 di loro che, a seguito dell’acquisizione di Aol, hanno alzato la testa e chiesto i soldi. Niente da fare, la Huffington ha preferito liquidarli: se il vostro nome sul sito non vi basta, potete andarvene. Nella schiera di chi non ha sollevato obiezioni, anche i contributor Bernard Henry Levi, Dominique Strauss Kahn e Bill Clinton che di certo non hanno bisogno di uno stipendio, ma solo di una vetrina. Ed sui nomi già noti, usati come trampolino di lancio, che il blog ha puntato per conquistare l’olimpo dell’informazione online. E ci è riuscito.
Oggi l’obiettivo del sito è di proseguire sulla strada del giornalismo partecipativo e, per farlo, ha arruolato Biz Stone, il cofondatore di Twitter, che è diventato consulente strategico. La Huffington, in nome della partecipazione dal basso, vuole continuare a offrire contenuti gratuiti. Ma anche a non pagare chi li produce. Per questo secondo Tim Rutten del Los Angeles Times, l’Huffington Post e Aol, “riassumono semplicemente nel campo dei nuovi media molti dei peggiori abusi del capitalismo della vecchia economia industriale: lo sfruttamento, i ritmi accelerati, il lavoro a cottimo; grandi profitti per i padroni; disperazione, fatica pesante e sfruttamento per i lavoratori. Non ancora il lavoro minorile. Però, se in questo modo aumentassero le pagine viste…”. Della stessa opinione è Bill Keller, direttore del New York Times, secondo cui la Huffington è un’astuta “regina dell’aggregazione”, che non si fa scrupolo a piratare e “vampirizzare” i contenuti altrui in nome del suo successo.
Che sia arrivista o meno, siamo al momento della verità: se Aol, grazie alle strategie della nuova arrivata, riuscirà a superare i lettori e i profitti del New York Times, il modello di business delle news a pagamento avrà fallito. E la milionaria greca continuerà ad avere in pugno il mercato delle news online.