Mi arrivano continue segnalazioni per una breve news pubblicata venerdì dal Sole 24 Ore: il Fondo Monetario Internazionale avrebbe lanciato un allarme sulla prossima “crescente scarsità” di petrolio. Questo significa forse che l’economia, dopo la geologia, si è resa conto del picco di produzione ormai raggiunto. “Allarme dell’Fmi sull’offerta”, titola significativamente il Sole. Così, sono andata a verificare di persona.
Il documento, una sintesi di un capitolo del World Economic Outlook di prossima uscita, si trova qui. Il punto che mi preme sottolineare è il seguente: i mercati mondiali del petrolio si trovano in un periodo di crescente scarsità, che riflette la rapida crescita nella domanda di petrolio delle economie emergenti e un calo nella crescita dell’offerta.
Si fa naturalmente riferimento all’inesausta e mai abbastanza discussa questione della gigantesca domanda petrolifera cinese, indiana e di tutti gli altri Paesi manifatturieri. Ma l’ultima frase è quella più indicativa: non si parla di produzione, ma di offerta. Si tratta forse di una censura involontaria verso il problema del picco produttivo, quell’elefante nella stanza che si fa tanta fatica a vedere? Non ne sarei tanto sicura.
L’offerta, in fin dei conti, non è altro che il greggio che il Paese produttore mette sul mercato, e solo quello. Ce n’è infatti dell’altro: ed è precisamente il greggio che il Paese tiene per sé. A questo punto, la stanza comincia a diventare un po’ troppo affollata di elefanti, l’ultimo dei quali si chiama Export Land Model.
Non avrei mai pensato, qualche anno fa, che il problema delle esportazioni si sarebbe presentato per primo alla nostra porta, prima del picco di produzione, prima della scarsità di mera origine geologica. Invece è proprio quello che si sta verificando in questo momento: l’Export Land Model incrocia i dati relativi alla produzione, al consumo interno e alle esportazioni, e osservando alcuni di questi modelli si scopre con sbalordimento che molti dei Paesi produttori di petrolio stanno sperimentando, negli ultimi anni, un progressivo calo dell’offerta sul mercato contro prodigiosi aumenti del consumo interno. Si parla qui di pezzi da novanta: l’Iran, l’Arabia Saudita, il Venezuela, poi il Messico e la Gran Bretagna.
Per capire con chiarezza come funziona l’Export Land Model, usiamo l’esempio dell’Indonesia. E’stata membro Opec dal 1962 fino al 2008 (non dimentichiamo che Opec significa appunto Organizzazione dei Paesi Esportatori, e non dei produttori!), e ne ha persino avuto la presidenza. Ebbene, l’Indonesia, a fronte di un aumento della popolazione e del consumo interno, è diventata un Paese importatore di petrolio. In alto il suo Export Land Model.
Appare chiaro come, ad un certo punto, la domanda interna abbia allegramente superato la pur consistente produzione, costringendo il Paese prima a smettere di vendere il proprio petrolio e poi persino a importarne. Un quadro allarmante che si sta ripetendo, seppure ancora non in termini così drastici, per quasi tutti i Paesi produttori.
Perché accade ciò? Brevemente, possiamo imputarne la responsabilità ai carburanti sussidiati, benzina praticamente regalata ai cittadini che ne consumano a volontà (il mercato automobilistico iraniano è più vivace di quello italiano, per capirci), e soprattutto ad aumenti della popolazione nell’ordine di tre o quattro grandezze negli ultimi decenni. Quando un Paese, come l’Arabia Saudita, passa da 7 a 25 milioni di abitanti, il consumo petrolifero comincia a pesare.
A saper leggere tra le righe, l’allarme lanciato dal Fmi è questo: “Qualcuno sta usando il nostro petrolio”, e continuando così per noi ne resterà ben poco disponibile. Il Fmi conclude incoraggiando l’implementazione di energie rinnovabili, ma chissà se davvero sarà questo il messaggio raccolto dai Paesi importatori sempre più affamati. In fin dei conti, se qualcuno sta impunemente usando il petrolio che serve a noi, qualcosa bisognerà pur fare per porre un freno a tale indecoroso andazzo.
Dati da Mazamascience.com
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