Da una parte lo scontro politico. Interno, tra le varie anime di maggioranza e opposizione, ma anche esterno tra l’Italia e gli altri paesi europei. Dall’altra parte loro, i migranti che nessuno vuole, fatti rimbalzare tra centri di accoglienza e tendopoli, sempre più spesso rimpatriati a poche ore dal loro arrivo.
“Bisogna ricordare a tutti che i minori sono titolari di diritto in quanto tali”, spiega Simona Binello, responsabile delle due comunità di Genova – Tangram e Samarcanda – che hanno accolto dieci minorenni tunisini sbarcati a Lampedusa il 3 aprile e arrivati all’aeroporto Cristoforo Colombo venerdì scorso. “Mi stupisco quando sento qualcuno dire che bisogna capire se sono clandestini o profughi. Innanzitutto sono persone e le loro storie vanno valutate una ad una. Se poi sono anche minorenni, prima di stabilire il loro status, è necessario proteggerli”.
Cominciamo facendo un po’ di chiarezza sui termini. Che categoria di minori viene ospitata nelle comunità ‘Tangram’ e ‘Samarcanda’?
Per quanto riguarda ‘Samarcanda’, si tratta di minori stranieri non accompagnati, cioè minori che non hanno riferimenti familiari sul territorio. Questo non significa che sono abbandonati e quindi per esempio adottabili, ma semplicemente che sono partiti soli e vanno aiutati nei loro bisogni primari. Non solo mangiare, dormire e andare a scuola se hanno meno di 16 anni, ma anche curare tutto l’aspetto sanitario. Molti ragazzi non hanno mai visto un medico e temono che un prelievo del sangue possa renderli menomati. Inoltre i ragazzi vengono informati sulla procedura per il riconoscimento della protezione e sui loro diritti e doveri in relazione al loro status. ‘Tangram’ invece ospita minori stranieri non accompagnati richiedenti protezione internazionale. Si tratta dei cosiddetti “rifugiati”. Sono ragazzi che hanno alle spalle situazioni delicatissime e che nel loro paese d’origine rischiano la vita.
Entrambe le strutture sono gestite dal Comune di Genova, ma ‘Tangram’ è l’unica comunità sul territorio ligure che ha gli strumenti per accogliere minori con quelle caratteristiche. L’ente dipende dallo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati con sede a Roma.
Chi valuta le situazioni dei minori e decide dove inserirli?
L’ammissione ai centri di accoglienza del Sistema è disposta dal Servizio centrale su segnalazione dei singoli progetti territoriali o di enti terzi come prefetture, questure e associazioni.
Per quanto riguarda Genova, la commissione competente si trova a Torino ed è stata istituita tre anni fa. Bisogna dire che questi ragazzi sono privi di qualsiasi documento identificativo, quindi per ora la valutazione si basa sulle loro stesse dichiarazioni sia per quanto riguarda la nazionalità sia per quanto riguarda l’età. Presumibilmente hanno tra i 13 e i 17 anni, ma per capirlo si va a occhio. Il Comune si è reso disponibile ad accoglierli e noi di conseguenza, ma c’è molta confusione riguardo allo status da attribuire loro. Basta guardare il caos generato dal decreto di protezione temporanea che però non viene riconosciuto dagli altri paesi europei. Il problema è rappresentato dalla disomogeneità delle regole tra un paese e l’altro. Uno dei ragazzi ha dichiarato di avere una sorella in Francia. Noi ovviamente incoraggiamo i ricongiungimenti familiari, ma mentre in Italia si arriva al terzo grado di parentela, in Francia si ha diritto a raggiungere solo i genitori.
Quali sono i gradi di protezione previsti dalla legge italiana?
Si può immaginare un grande contenitore che è l’istituto dell”asilo’: al suo interno sono previste varie forme di protezione. Il ‘rifugio’ che garantisce un permesso di soggiorno di 5 anni e viene chiesto da chi è perseguitato per motivi politici; la ‘protezione sussidiaria’ che fornisce un permesso di 3 anni a persone che nel loro paese sono perseguitati per motivi religiosi, per il loro orientamento sessuale o semplicemente perché non hanno diritto di esprimersi liberamente. E’ il caso, ad esempio, della comunità curda in Turchia. Infine la ‘protezione umanitaria’ che riconosce una situazione di necessità del richiedente. Per fare un esempio pratico, è il caso di una persona che viva in una zona dove l’acqua o il cibo sono contaminati. Non c’è una persecuzione politica, ma le condizioni di vita non permettono la sopravvivenza nel Paese d’origine.
Si sente spesso dire: “Come mai i tunisini o gli egiziani arrivano proprio adesso mentre nei loro Paesi è caduto il regime e le cose sembrano migliorare?”. Insomma, che cosa li spinge a partire ora?
La speranza. Anche se l’Egitto e la Tunisia hanno abbattuto le rispettive dittature, siamo in un momento di transizione. I giovani partono con il desiderio di trovare un lavoro. L’Italia non è la meta finale della loro vita, ma un luogo dove guadagnare denaro da poter mandare in patria. Si accontentano anche di lavori dove vengono sfruttati per uno stipendio di 300/400 euro perché, nel momento in cui riescono a mandarne anche solo 50 a casa, hanno sfamato metà famiglia. Bisogna considerare infatti che in patria, un tunisino o un egiziano guadagnano in media massimo 100 euro.
Dovremmo ricordarci più spesso del nostro passato di migranti. Di quando andavamo in Germania o in Svizzera a cercare lavoro. Ecco, i giovani tunisini sono come gli italiani di 50 anni fa o gli albanesi degli anni ’90. Emigrano per lavorare, ma un giorno torneranno nel loro Paese d’origine. Tornare a casa è un desiderio comune a tutti gli esseri umani.