Lei ha detto: “Se non ci fosse stata la guerra, io non sarei diventato qualcuno”. Quest’affermazione è da attribuire alla notorietà che le ha conferito la sua prima raccolta di poesie “I scarabócc”, nata nel campo di concentramento di Troisdorf?
“È da attribuire a tutto, perché quei giorni drammatici che ho passato in prigionia in Germania, ogni giorno con l’idea della morte, certo mi hanno fatto diventare un uomo. Ero giovane: in Germania potevo avere 23-24 anni e adesso quei momenti mi sembrano ancora i più avventurosi della mia vita. “I scarabócc” sono nati a Troisdorf per i miei compagni di prigionia romagnoli. La sera mi chiedevano di dire qualcosa in dialetto che li aiutasse a distrarsi e a dormire. Io, non avendo carta e penna, cercavo tutto il giorno di imparare quelle poesie a memoria mentre lavoravo. A guerra finita il dottor Gioacchino Strocchi, che era riuscito a trascriverle, me le portò. Carlo Bo, il rettore dell’università di Urbino, le lesse, gli piacquero e così decisi di pubblicarle”.
È mai tornato a Troisdorf?
“Una volta, è cambiato tutto. Volevo rivedere il campo di concentramento, ma non ho visto più niente che avesse l’odore amaro di quel tempo in cui vi fui imprigionato”.
Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti. Un luogo accomuna i grandi della poesia dialettale: Santarcangelo di Romagna. Lei si è dato una spiegazione del perché questo piccolo centro del riminese sia stato una tale fucina di arte poetica?
“Non lo so, generalmente le persone che vogliono dire qualcosa in un certo modo sono raggruppate. Dieci anni dopo il mio ritorno dalla Germania alcuni bravissimi, eccezionali amici di Santarcangelo hanno cominciato a scrivere anche loro, anche se prima onestamente non è che mi prendessero in giro, però pensavano che non fosse una gran bella cosa”.
In futuro qualcuno sarà ancora in grado di parla il dialetto?
“Il dialetto per me non deve essere insegnato nelle scuole e credo che purtroppo morirà, però è anche una lingua che ha fatto i grattacieli di New York, è una lingua sudata, una grande lingua. Mi dispiace che si perda, perché tutto il mondo contadino lo parlava a perfezione, mentre ora parla malissimo l’italiano, come lo parlo male anch’io”.
Lei Guerra ha lavorato come sceneggiatore con alcuni dei più grandi registi. Quale ricorda con maggiore affetto?
“Tutti. Non si può chiedere se si ricorda più un figlio o un altro. Erano grandi persone, modeste, umili, alla pari. Questa è la cosa eccezionale. Non pensate che Fellini fosse il Padre eterno quando ci mettevamo seduti per pensare a un film. Era prima di tutto un uomo rispettoso, poi si rivelava un genio incredibile, uno dei registi con più favola sulla lingua”.
Nel Suo libro “Arrivano le donne” ricorda una riflessione condivisa con Fellini: “In Romagna, durante la civiltà contadina, ha sempre comandato la donna: la azdora, che guidava i movimenti della famiglia e del denaro”. Secondo lei questa figura è scomparsa?
“Nelle campagne romagnole, un tempo, la donna era quella che dirigeva. Si chiamava appunto l’azdora, generalmente era la moglie del figlio più anziano, che poi teneva i conti. Non so se questa figura femminile possa ancora esistere al giorno d’oggi. Mi sembra che ora si stia frantumando tutto”.
Della Rimini di Amarcord che cosa rimane oggi?
“Tutto cambia ed è un peccato, perché se ancora viene gente sulle nostre spiagge è per quella bonomia che avevamo, quel essere pronti a dire “buongiorno” e “buonasera” a tutti. Invece cominciamo a chiuderci, ad avere qualche cosa che, secondo me, allontanerà molte persone. Però con questo nostro carattere festoso, con la nostra splendida ignoranza piacciamo ancora molto agli stranieri”.
Quanto ha inciso l’urbanizzazione della costa romagnola sull’immaginario della gente cresciuta vicino al mare?
“Noi di sinistra, devo ammettere per bontà, perché si veniva da un dopoguerra un po’ catastrofico, abbiamo dato troppi permessi di toglierci dagli occhi, con il cemento, l’immagine immensa del mare. Per noi da ragazzi il mare è sempre stato un’indicazione d’infinito, di grandiosità, quasi di spavento, che adesso i giovani non hanno più, perché i muri hanno cancellato questa immensità del mare”.
A 91 anni Tonino Guerra ha tanti “Progetti sospesi”, nome che ha dato a una delle sue ultime pubblicazioni. Il progetto 6 si chiama “Il contadino” e ha in sé tutta la nostalgia per un rapporto con la terra che si sta perdendo…
“Sì, è così, abbiamo pochi contadini. I giovani sono lontani dal lavoro, dalla terra, dovrebbero capire che si può tornare a lavorarla, con quel rispetto, quell’ammirazione e quella devozione che è indispensabile. Se perdiamo il rapporto con la terra perdiamo tutto. Sono venute a mancare quella grazia e quella poesia che avevamo nella civiltà contadina. Ora, non è che io voglio che torni questa civiltà, vorrei piuttosto ritrovare una devozione verso la terra, questo lo pretendo, perché è lei la vera madre. E vorrei cominciare uno spot dicendo: “Mi pare che sia arrivato il momento di dire buongiorno agli alberi”.