Sabato pomeriggio ho partecipato a Bologna alla manifestazione “il nostro tempo è adesso”; come del resto in gran parte delle pur numerose piazze italiane la partecipazione non è stata elevata, numeri appena dignitosi per una questione che è invece il problema forse più drammatico del nostro tempo, perché?
I dati della crisi economica e dell’occupazione parlano chiaro anche in Emilia Romagna: l’80% dei nuovi contratti di lavoro è a termine, nelle variegate e multiformi possibilità contemplate dalla legge n.30, conosciuta come legge Biagi, i contratti a tempo indeterminato sono residuali e se Bologna certo non vive la drammatica questione sociale di Napoli e del mezzogiorno, anche qui la crisi occupazionale e la precarietà stanno diventando un fenomeno di dimensioni ragguardevoli.
Perché allora non c’è la partecipazione che si attenderebbe in una mobilitazione del genere?
Penso che in realtà le cause risiedano proprio nella condizione individuale e collettiva in cui vivono i precari, quelli che magari lo sono da molto tempo e coloro che sono entrati da poco nel mondo del lavoro cosiddetto eufemisticamente “flessibile”.
Sono lavoratori di serie B o C, non hanno quasi alcun tipo di tutela, non hanno la protezione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che salvaguarda dal licenziamento individuale e collettivo senza giusta causa che è vietato dalla legge 300/70; non hanno alcuna garanzia di essere riassunti quando il loro contratto sarà scaduto, i più non hanno una tessera sindacale e probabilmente non godono di alcuna forma di solidarietà sociale, di classe, come si diceva un tempo.
Sono persone che vivono un’esistenza difficile, spesso in uno stato di invisibilità sociale, sono soli con le loro difficoltà, non possono costituire facilmente una famiglia, non possono, se non con i soldi dei genitori, acquistare una casa, molti continuano a vivere una lunga condizione filiale, se sono fortunati ad avere una famiglia che li sostiene.
E forse proprio la condizione di solitudine determinata da anni di contratti individuali stipulati da soli con le aziende che li hanno posti in una situazione di enorme ricattabilità, li rende poco capaci di ribellarsi ancor oggi e di partecipare attivamente per cercare di cambiare la propria situazione
I sindacati hanno la loro responsabilità nel non aver saputo comprendere tempestivamente le dimensioni delle trasformazioni economiche globali e locali che hanno alterato radicalmente i rapporti di forza ad esclusivo vantaggio delle imprese.
Non era facile e certamente non sono stati aiutati dalle forze politiche che hanno per lungo tempo sostenuto, con superficiale credulonità, le miracolose capacità del mercato di autoregolarsi, addirittura esaltando la flessibilità come valore assoluto, senza considerare la necessità di controllare e controbilanciare, con leggi adeguate, il fenomeno di precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Nel 2002 tre milioni di lavoratori scesero in campo con la Cgil per difendere l’articolo 18 ma non per contrastare la nuova legislazione sul lavoro che creava le condizioni di diffusa precarietà e massimo sfruttamento.
E’ a causa di questi ritardi ed equivoci che si è determinato il vuoto di prospettive e di strategie nel quale oggi la questione del lavoro precario si trova ad essere un problema di assai difficile soluzione.
Le forze progressiste devono riappropriarsi di questo problema, studiare le soluzioni legislative e fiscali per risolverlo, per dare ai lavoratori precari una diversa prospettiva di vita ma soprattutto costruire una nuova unità di tutti i lavoratori, qualunque sia la forma contrattuale in cui prestano la loro opera professionale.