Simona Previti, Claudia Cardinale, L’Epos, 2011
Nell’iperbole squisitamente britannica di David Niven – col quale recita in La pantera rosa (1964) – rimane “la più felice invenzione italiana dopo gli spaghetti”. In quegli stessi anni, gli infuocati rotocalchi di mezzo mondo identificano Claudia Cardinale con due sole lettere: C.C., accostate/contrapposte alla doppia B che sta per Brigitte Bardot. Non è esagerato dire che in questa progressione alfabetica quasi si nasconda una rivoluzione del gusto; il modello divistico della dea dalla voce roca – nata a Tunisi il 15 aprile di qualche decennio fa – riesce da subito ad accordare pubblico e critica, gente comune e autori raffinati, celando in sé qualcosa di profondamente arcaico eppure fanciullesco, di etereo e, allo stesso modo, carnale.
Senza alcun legame con la procacità delle maggiorate, Claudia è il decennio dei Sessanta come Sofia è stata quello dei Cinquanta. Alla provocazione dei sensi somma la vertigine della mente, in questo modo “diventa nel giro di pochi anni l’enigmatica apparizione che affascina gli intellettuali” (Stefano Masi, Storia del Cinema Mondiale, a cura di Gian Piero Brunetta).
Non di rado, le sue sono apparizioni e epifanie più che reali interpretazioni. Più devoto ad Afrodite che a Melpomene, è corpo che emerge dal buio e abbaglia, magnetizza lo sguardo per sempre, lo fa suo. A poco servono le gelosie di Ferribotte che vuole la sorella minore Carmelina chiusa in casa ne I soliti ignoti (1958): la macchina da presa s’innamora immediatamente, rendendola in pochissimo tempo oggetto insostituibile nelle visioni dei grandi maestri.
Se non un miraggio, cos’altro sarebbe la ragazza della fonte cucitale addosso dal Mastroianni-regista del felliniano 8 ½? Dopo averla diretta in tre magnifiche pellicole (Rocco e i suoi fratelli, Il gattopardo e Vaghe stelle dell’Orsa), è Visconti a sintetizzarne l’essenza in una sequenza muta e fantasmatica, chimerica come poche altre, nel senile Gruppo di famiglia in un interno.
Con la sua Jill McBain, la Cardinale ha vampirizzato il mito di una frontiera ormai allo sfascio in C’era una volta il West così come ha fatto con altri mille mondi e limiti nei racconti di Bolognini, Bellocchio, Ferreri, Pietrangeli, Zurlini, Comencini e Herzog. Sul set di Fitzcarraldo anche il temutissimo Klaus Kinski le si inginocchia, trasformando le proverbiali sgarbatezze che era solito elargire ai colleghi in premure e accortezze; a ricordare con affetto l’attore tedesco è Claudia stessa nello splendido documentario Kinski, il mio nemico più caro.