È Twitter la parola più ascoltata oggi a Perugia. Segno dei tempi. Che si parli del futuro dei corrispondenti all’estero o del recente passato (la campagna di Obama del 2008), è il servizio di microblogging che tanto fatica in Italia a rappresentare l’oggetto di discussione più frequente tra i seminari e le conferenze del Festival del Giornalismo. I social media sono ovunque, a partire dal racconto dell’edizione 2011 del Festival (hashtag #ijf11, così come appare su tutti i badge dei partecipanti), fino ai racconti delle esperienze dei giornalisti sul fronte di guerra. Parlare di web 2.0 diventa quasi inevitabile, qualsiasi sia la platea, l’argomento e la portata tecnica, politica e geografica dell’informazione.
Si parte di buona mattina, parlando dei processi di costruzione delle community dei lettori dei giornali. Peter Gomez racconta il modello Fatto Quotidiano: l’Huffington Post come ispirazione, l’8% degli articoli ispirati da segnalazioni degli utenti, grandissimi risultati su Facebook. I social media sono ritenuti alleati fondamentali dei giornalisti, anche dei più critici, ma la resa al web 2.0 non è totale (e per fortuna).
La condivisione dei contenuti e l’ascolto trovano un forte elemento di amplificazione nei social media, ma in fondo è Zuckerberg che decide della sua creatura e dunque non si può rinunciare alla costruzione di sistemi di dialogo e dibattito interni ai giornali e ai loro siti internet.
Twitter, Facebook e la websfera sono il crocevia di due tendenze condivise dalla stragrande maggioranza degli analisti e che potrebbero, finalmente, offrire una risposta chiara alla domanda delle domande: “come sarà il futuro del giornalismo?”
Sarà specializzato e sarà iperlocale: parlerà a nicchie di pubblico a cui sarà raccontata la storia che loro volevano ascoltare, permetterà di informare il vicino di casa su ciò che accade nel quartiere. La teoria della coda lunga sembra prendere piede anche tra gli attori dell’informazione, anche se l’Italia sembra imbrigliata, troppo ferma su modelli di business poco propensi alla diversificazione degli investimenti pubblicitari (a vantaggio di pochi gruppi imprenditoriali).
Chi fa il giornalista “di isolato” si affida spesso alla passione, alla capacità di interessare il suo pubblico e coinvolgerlo anche emotivamente per trasformare questa attività in un lavoro minimamente redditizio. Ma aggregatori di notizie iperlocali o esperienze editoriali basate sul web-giornalismo paiono ancora ipotesi remote, forse irrealizzbili.
I social media sono citati costantemente anche in un altro tavolo di lavoro animato giornalisti che si pongono proprio all’opposto dei net-citizens: i corrispondenti all’estero delle testate tradizionali, spesso percepiti come un costo eccessivo per gli editori. La domanda posta dagli organizzatori è senz’altro affascinante: l’inviato è ancora necessario nell’era dei social media? Non sarebbe più autorevole ed economico un freelance del posto? Le reazioni sono abbastanza scontate, talvolta difensive: i corrispondenti sono professionisti, la storia del giornalista costoso non regge perché tutto ciò che è di qualità ha un costo, il web rende tutto superficiale e ammazza l’approfondimento, il giornalista professionista ci difende dalla propaganda.
La verità, forse, è nel mezzo: non ci può essere reale competizione tra giornalisti professionisti di livello internazionale e bravi freelance locali, però il mestiere di corrispondente (e forse, quello di giornalista) non può essere più svolto in modo efficace senza sapere come funzionano Facebook, Twitter e Youtube, solo per citare i più importanti.
La rivoluzione culturale nel giornalismo è in corso. Questa presa di coscienza collettiva lo testimonia: la destinazione di questo viaggio è imprecisata e questo rende tutto più incerto e affascinante.
Ma non è tutto rose e social media: quando si parla di Tycoon che entrano in politica, ovviamente il tono cambia, e la parola chiave è un’altra: Berlusconi. Altro che rivoluzione culturale.